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Elisabetta, Almarina e Nisida
«Napoli è una città che ci sa fare con la morte, le dà il giusto peso, che è quello della vita: cioè, preso individualmente, poco più di nulla. Così, dopo una mezz’ora dal decesso (parlavano in questo modo i medici ma di chi?), Antonio era nella morgue e io scendevo le scale che, volessi o non volessi, mi stavano facendo svoltare vita»
Il suo nome è Elisabetta Maiorano è nata a Napoli nel Novecento, è una cinquantenne vedova del marito Antonio ed è insegnante di matematica a Nisida un carcere minorile dove la parola d’ordine è andare e venire, un luogo, ancora, in cui la vecchia vita finisce per lasciar posto ad altro, sia che si guardi ciò con la prospettiva del detenuto che con quella del visitatore che per una ragione o l’altra vi fa ingresso.
Due sono le protagoniste che si fanno da specchio l’un l’altra: la prima è questa docente che vive in un dolore mai completamente elaborato, l’altra è una ragazza diciassettenne di nome Almarina Luchian condannata per furto (il minore dei reati commessi e per questo salvata da un passato fatto di violenze e soprusi, di padri padroni approfittatori e maligni), che in quel futuro vuol crederci.
Inaspettata è la nascita di quell’amore che le lega e altrettanto inarrestabile ne è la forza. Quello che ha inizio è un viaggio variegato fatto di ricordi e non ricordi ma soprattutto di speranza. È l’inizio di una crescita e di una maturazione interiore che si sviluppa nel luogo di solitudine, paura e condanna per eccellenza; il carcere. Perché se l’insegnante ha vissuto negli ultimi tre lustri vincolata alla memoria di un uomo venuto a mancare e in un profondo sentimento di colpa che la rende vittima di pregiudizio, diffidenza e scherno, dall’altro vi è una giovane donna che ha ancora, nonostante tutto e tutti, prospettive. È tramite lo sguardo di quest’ultima che la prima inizia a cambiare e a guardare il mondo dentro, e l’altrettanto mondo nefasto fuori Nisida, con uno sguardo diverso. È tramite questo rapporto insegnante-detenuta, madre-figlia mai avuta, che entrambe maturano a vicenda, vincendo, in particolare Elisabetta, quei fantasmi che dalla morte del coniuge la accompagnano.
Il risultato è una storia forte, di rinascita, con grande contenuto e morale e avvalorata da una scrittura ricca ed elaborata. Tuttavia, talvolta nello scorrimento il carattere intimista è eccessivo, circostanza che tende a rendere più farraginosa la lettura, a ridurre ai minimi termini quello che sarebbe e potrebbe essere l’approfondimento dell’universo carcerario e a far perdere di interesse e di coinvolgimento al conoscitore che si sente sfiancato da questo continuo percorso interiore.
«I ricordi restano sempre dove li abbiamo lasciati: noi ci alziamo, andiamo, richiamati a tavola dalle madri, e i ricordi restano sugli scalini»
«Il mio professore di geometria, del resto, diceva sempre che devi puntare il compasso da qualche parte, per capire quanto ampio puoi disegnare il cerchio, e Almarina sta lì, giusto al centro.»