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ALLA RICERCA DELL'INFANZIA PERDUTA
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”
“Ripness is all”, la maturità è tutto, scrive Pavese in esergo a “La luna e i falò”, citando il “Re Lear” di Shakespeare: citazione ambigua quanto mai se si pensa che Anguilla, il protagonista del romanzo, venti anni prima è partito, anzi “scappato” dal paese, per fare fortuna in America, e ora, quarantenne – e quindi nel pieno della “maturità” – ritorna e ricorda con nostalgia i tempi della sua infanzia. In questo doppio movimento – partenza e “nostos”, ritorno – si concentra il senso del romanzo, che è soprattutto ossimorico: da una parte c’è la denuncia della povertà, dell’ignoranza e delle condizioni sociali arretrate e ingiuste (la mezzadria) in cui versa la maggior parte della gente delle campagne, dall’altra la nostalgia elegiaca e affettuosa (“Cos’avrei dato per vedere ancora il mondo con gli occhi di Cinto, ricominciare in Gaminella come lui, con quello stesso padre, magari con quella gamba…”) con cui Anguilla risuscita e sublima i ricordi di una campagna “mitica” che la trasferta in America gli aveva fatto dimenticare. In questo rapporto dialettico rientra l’alter ego del protagonista, quel Nuto che non si è mai spostato dal Belbo, non ha viaggiato ed è rimasto a lottare nel suo piccolo pezzo di terra per cambiare le cose. Anguilla e Nuto rappresentano le due facce della stessa medaglia, due proiezioni dello scrittore, quella per cui il mondo è più grande di Gaminella, del Salto e della Mora e bisogna andare al di là di Canelli (e di Alessandria e di Genova…) per conoscere la vita, e quella invece di chi è radicato nella terra come una pianta o un sasso, di chi ha bisogno di una casa, di un pezzo di terra, di un paese per riconoscersi e dire “ecco chi sono”. Emblematico a questo proposito è il confronto con l’America, terra di alienazione e solitudine, priva di passato (“Di dove uno venisse, chi fosse suo padre o suo nonno, non succedeva mai di chiederlo a nessuno”). Persino i falò del titolo sono caratterizzati da questa dualità, essendo al contempo forza rigeneratrice della terra e simbolo di morte e distruzione (l’incendio della casa del Valino, la morte di Santina). Ed è proprio questa dicotomia che impedisce ad Anguilla di portare a buon fine la sua ricerca del tempo perduto: se un suono, una faccia o un sapore sono in grado di riportargli alla mente gli episodi dimenticati di un’infanzia mitica, l’impatto rude e non sublimato con la prosaica realtà contadina (la tragica fine della casa in cui è cresciuto, la morte delle persone che conosceva un tempo, e in particolare le tre sorelle della Mora) lo restituiscono alla sua triste condizione di individuo scisso ed esiliato. La maturità di cui si parlava all’inizio, quindi, è una maturità in negativo, ovverossia la sottomissione al proprio destino, sia esso quello di Anguilla o di Nuto.
La prosa spoglia e diretta di Pavese possiede, soprattutto nella prima parte del romanzo – quella in cui Anguilla impara a riconoscere posti e sensazioni di una volta – un notevole afflato poetico, in cui l’uso sapiente del dialetto e un realismo di stampo verghiano si allargano alle suggestioni del mito tipiche di certa letteratura americana. L’impianto narrativo è semplice e lineare, quasi schematico nei personaggi e nella successione dei capitoli, pur con intelligenti scarti temporali (come nel XXX e nel XXXI capitolo, in cui la rovina di Irene e Silvia precede, pur essendogli cronologicamente posteriore, il felice ricordo di una festa trascorsa dal protagonista con le due sorelle) e qualche sporadica accensione onirico-simbolica (l’episodio notturno nel deserto americano). A mio avviso la seconda parte soffre di qualche squilibrio, sbilanciato com’è nella rievocazione della storia degli abitanti della Mora, e la chiusa è un po’ drastica (dando all’uccisione di Santina ad opera dei partigiani un rilievo che avrebbe richiesto forse una preparazione più meditata, una maggiore suspense), ma nel complesso “La luna e i falò” è un romanzo potente e suggestivo, sicuramente uno dei migliori della letteratura italiana del Novecento.
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"Men must endure
Their going hence, even as their coming hither:
Ripeness is all. Come on."
E pensare che nell'Amleto poco tempo prima aveva detto "readiness is all", la prontezza è tutto. Shakespeare è sempre un notevole esercizio critico.
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