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Castelli di rabbia
 
Castelli di rabbia 2019-04-08 06:30:47 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    08 Aprile, 2019
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EROI DEL SOGNO, VITTIME DEL DESTINO

Il presente saggio analizza, oltre a “Castelli di rabbia”, anche il secondo romanzo di Alessandro Baricco, “Oceano mare”.

Cosa può accomunare due autori così diversi tra loro come Krzysztof Kieslowski e Alessandro Baricco? Questa domanda mi è sorta ragionando se fosse in qualche modo più tragico credere che la vita dell’uomo sia in balia del caso oppure, al contrario, governata rigidamente dal destino. In un’epoca in cui la terza opzione, quella della provvidenza divina, sembra essere caduta in disuso, questa questione non è affatto oziosa, anzi serve a sgombrare il campo da tanti equivoci e luoghi comuni. Il primo è quello che fa sì che caso e destino vengano usati sempre più spesso come termini di comodo, dal momento che dire acriticamente che tutto è dovuto al caso o che così è andata perché era destino sono formule che si equivalgono nella sostanza, e che riflettono tutt’al più la minore o maggiore paura che in fondo a tutto non vi sia un fine alle azioni dell’uomo. Il secondo è quello per cui si pensa che entrambi – caso e destino – azzerino il ruolo dell’uomo nell’autodeterminazione della propria vita.
Persino in un film così fatalista e borgesiano come “Destino cieco”, in cui il regista fa accadere al protagonista Witek un evento fortuito (lo scontro con un ubriaco nella stazione ferroviaria), il quale però segna profondamente la sua esistenza fino a configurarla in maniera diversa, e perfino radicalmente opposta, a seconda dell’impercettibile modularsi dell’evento stesso, persino in un film come questo – dicevo – Kieslowski non è disposto ad accettare queste semplicistiche conclusioni. Anche se tutte e tre le opzioni esistenziali che egli concede al protagonista portano paradossalmente ad un identico esito (egli non riesce in nessun caso a partire per Parigi, anzi, nell’ultimo episodio, quando sembra avercela fatta, l’aereo esplode in aria), Kieslowski sembra suggerire che Witek è vittima della sua incapacità di agire autonomamente e della sua mancanza di consapevolezza politica piuttosto che delle bizzarrie della sorte. Ciò dimostra che il caso fa sì, per citare un famoso aneddoto, che il battito d’ali di una farfalla in Brasile provochi un tornado in Texas, ma poi, accettato questo, esso può essere interpretato a discrezione di ciascuno come negazione totale di ogni aspirazione dell’uomo all’autodeterminazione oppure inteso, come fa Kieslowski, come infinito e inesauribile prodursi di virtualità, in sé né buone né cattive.
Allo stesso modo, il destino può essere visto come agente trascendente che annulla il ruolo dell’individuo come artefice del proprio futuro, ma anche concedere all’uomo – come ha fatto in tempi lontani, per fare un esempio, la tragedia greca – un’aura di eroica dignità, ancorché votata alla sconfitta. Ecco, se devo trovare un minimo comune denominatore tra Kieslowski e Baricco, lo cercherei proprio in questo rifiuto di qualsiasi filosofia del fatalismo, del nichilismo e della rassegnazione, che accomuna entrambi. Perché dietro a personaggi così favolistici e irreali come quelli di “Castelli di rabbia” e di “Oceano mare”, dietro a storie talmente bizzarre e fantastiche da sembrare uscite da altrettanti quadri di Chagall, c’è sempre la sfida dell’uomo al proprio destino. E se anche Kieslowski è un autore unanimemente definito pessimista, è proprio Baricco – per tornare alla questione di partenza – a sembrarmi veramente tragico, a dispetto delle conclusioni alle quali potrebbe condurre una lettura affrettata e semplicistica delle sue opere.
I romanzi di Baricco sono indubbiamente intrisi di un umorismo che a tratti sfiora la pura comicità, eppure i personaggi che li popolano possono essere avvicinati nientemeno che al Sisifo intorno al quale Albert Camus ha costruito una delle più belle metafore sulla condizione dell’uomo moderno. Sisifo che, dopo essere morto, ottenne da Plutone il permesso di tornare sulla terra ma che, visto di nuovo l’aspetto del mondo, non volle più ritornare negli inferi sfidando gli ammonimenti degli dei, è l’eroe tragico per eccellenza. Costretto per l’eternità a pagare il disprezzo per gli dei, l’odio nei confronti della morte e la passione per la vita con un supplizio feroce (far rotolare all’infinito un enorme masso su e giù per una montagna), Sisifo è, secondo Camus, tragico perché è consapevole del proprio destino. Eppure, proprio grazie a questa tragicità, Camus attribuisce al suo eroe una connotazione positiva, in quanto la sua orgogliosa e sprezzante alterità lo fa essere superiore al proprio destino.
Come Sisifo, anche i personaggi di Baricco si portano letteralmente appresso il loro destino: per Pehnt esso si materializza in una giacca da uomo nera, esageratamente grande per un bambino, ma destinata a diventare della misura giusta quando sarà giunto il momento di abbandonare Quinnipak per trasferirsi nella capitale; per Jun è un libro misterioso, che prima o poi la condurrà in America lontano dal suo sposo; per Kuppert è la roncola che si è ritrovato in mano quando in una fiera ha incontrato la donna che lo aveva lasciato (“ora dimmi cosa c’entra il caso… era tutto studiato, a tavolino… io con la roncola in mano e Mary, dopo anni, che mi sbuca lì… magari se c’avevo dei fiori, in mano, per dire, magari si sarebbe tornati insieme quel giorno, io e Mary… ma era una roncola quella… più chiaro di così… rotaie come quelle le vedrebbe anche un cieco… erano le mie rotaie”).
“Il destino – scrive Baricco – dà appuntamenti strani”. E i personaggi di “Castelli di rabbia” e di “Oceano mare” si consegnano ad esso senza dilemmi, con dignità e con la consapevolezza – tragica appunto – che “non si bara con il destino”. E’ proprio questa coscienza a rendere il signor Rail la figura più simile all’eroe di Camus. Egli appartiene a quella schiera di persone che l’autore definisce “in tutto e per tutto assolutamente geniali ma anche, in tutto e per tutto, assolutamente fallimentari”, pronte a mettere in gioco l’intera loro esistenza, fino alle estreme conseguenze, per inseguire i propri desideri, come i bambini corrono dietro ai loro aquiloni nel cielo. “E’ un po’ come fare tante bocce di cristallo… - gli confida, in punto di morte il vecchio Andersson – prima o poi te ne scoppia qualcuna… e a te chissà quante te ne sono già scoppiate, e quante te ne scoppieranno”.
Elisabeth è la folle boccia di cristallo che il signor Rail, contro il ferreo buon senso di coloro che girano con le loro tristi biglie infrangibili in tasca, si sforza testardamente di costruire, senz’altro scopo che quello di poter vedere il mondo correre davanti ai suoi occhi a una velocità mai vista prima d’allora. Guardare il mondo, le cose, la realtà, da una prospettiva diversa da quella degli uomini normali, allontanarsi definitivamente da ogni forma di conformismo e di chiusura al nuovo, non lasciarsi condizionare da schemi mentali precostituiti ed omologanti: è solo per questo che vale la pena di rischiare la propria tranquilla ed agiata esistenza borghese, per conservare e difendere la propria capacità di sognare, a dispetto di tutti gli ingegneri Bonetti di questa terra. Sbagliando a volte, ma sempre vivendo intensamente la vita (“tutte le bocce di cristallo che avrai rotto erano solo vita… non sono quelli gli errori… la vita vera magari è proprio quella che si spacca”), fallendo alla fine, ma senza rimpianti, soltanto con la consapevolezza – questo è importante – della follia di tutto ciò, ma anche della inderogabile necessità di questa follia. Non è per caso che l’alter ego del signor Rail, Hector Horeau, l’architetto del Crystal Palace, pensa che se un giorno dovesse avere un figlio questi nascerebbe sicuramente pazzo.
Quando il signor Rail incontra per la prima volta Jun e decide di portarla con sé a Quinnipak, egli sa che non sarà per sempre, che un giorno lei se ne andrà per portare il suo libro a destinazione. Ma proprio qui risiede la sfida dell’uomo al proprio destino: nel cercare di fermarlo, di fargli trattenere il fiato, di incantarlo, non per sempre – questo è impossibile – ma soltanto per un po’. Il compito dell’uomo – afferma l’incipit di “Oceano mare” – è proprio quello di essere un baluardo, insignificante ma indispensabile, contro il meccanismo inesorabilmente perfetto del mondo. Ed è proprio in quel piccolo spazio vuoto, in quell’esiguo intervallo, in quella dilazione strappata al destino – così come il cavaliere Block nel bergmaniano “Settimo sigillo” riesce a strappare qualche giorno alla Morte – che si realizza la vittoria dell’uomo. Non una vittoria definitiva – certo – ma pur sempre un frammento di vita che permette di poter vivere il proprio sogno. Allora, solo allora, come dice Elisewin, “il destino non è più una catena ma un volo”, e il gesto di consegnarsi al destino “una sensazione meravigliosa… un’emozione”. (“Senza più dilemmi, senza più menzogne. Sapere dove. E raggiungerlo. Qualunque sia, il destino”). Perché, se è vero che alla fine di tutto c’è la sconfitta, quello che conta è il percorso intermedio che si è compiuto, non il punto d’arrivo. Al termine del romanzo, il signor Rail rimane completamente solo ed è costretto a mettere all’asta i propri beni per pagare i creditori, ma intanto ha potuto assaporare qualche attimo di perfezione, come l’amore appassionato di Jun o l’arrivo di Elisabeth a Quinnipak.
La vita per Baricco ha senso proprio in questi interstizi, in questi frammenti di eternità. Come il concerto di San Lorenzo che Pekisch organizza per dare l’addio a Pehnt: “un milione di suoni che scappano impazziti in un’unica musica… non c’è inizio non c’è fine… la commozione dentro il terrore dentro la pace dentro la nostalgia dentro il furore dentro la stanchezza dentro la voglia dentro la fine – aiuto – dov’è finito il tempo? – dov’è sparito il mondo?”. Magari, una volta tornati a casa, i cittadini di Quinnipak non saranno in grado di raccontare ciò a cui hanno assistito, ma in quegli attimi in cui le due bande provenienti dagli estremi opposti del paese si fondono reciprocamente, mescolando la loro strana musica, in quegli attimi si realizza la magia, il miracolo. Il tempo si ferma e l’uomo ha di fronte a sé solo l’infinito: c’è chi gioisce e chi piange, chi perde le sue illusioni e chi addirittura muore. Ma non importa, dal momento che il futuro non esiste, e solo il presente è eterno in quanto destinato a diventare ricordo, memoria, nostalgia anche (come per Pekisch che al senso di irripetibilità dell’evento aggiunge la malinconia del commiato).
L’importante è viverla forte questa vita, ora e per sempre, a costo di bruciarsi con essa. Emblematico è il personaggio di Elisewin, la ragazzina divorata da una terribile malattia, che poi altro non è che una sensibilità d’animo talmente forte da renderla del tutto indifesa e vulnerabile di fronte alla realtà. Ebbene, Elisewin accetta coscientemente il rischio di morire pur di riuscire a guarire e quindi, finalmente, vivere. Davanti al dottor Atterdel la ragazza innalza uno dei più belli inni alla vita che mai ci sia stato dato di ascoltare: “La vita, farei qualsiasi cosa per poter averla, tutta quella che c’è, tanta da impazzirne, non importa, posso anche impazzire ma la vita non voglio perdermela, io la voglio, davvero, dovesse anche fare un male da morire, è vivere che voglio”.
Non c’è in “Oceano mare” quell’aura di struggente malinconia presente in “Castelli di rabbia”, forse perché “Oceano mare” è, se così si può dire, un romanzo di formazione, e alla fine della storia ognuno dei sei personaggi riesce a realizzare un processo di apprendimento che lo rende in qualche modo migliore di prima. Eppure la filosofia che lo sottende è la stessa. La notte d’amore tra Elisewin e Adams (“e nemmeno è amore, questo è stupefacente, ma è mani, e pelle, labbra, stupore – tristezza, forse – persino tristezza – desiderio”) è infatti anch’essa la realizzazione di un sogno, al tempo stesso immortale e destinato a svanire subito.
Ma, come ho già detto, ciò che veramente ha importanza è rincorrerlo, questo sogno, accarezzarlo per qualche istante d’eternità, affacciarsi con infantile disponibilità al cospetto dell’infinito. E com’è? Il mare, com’è?” – chiede Padre Pluche a Elisewin -. “Bellissimo”. “E poi?”. “A un certo punto finisce”. Analogamente, in un ideale quanto anacronistico rimando, Hector Horeau afferma: “Penso che quando sarà tutto costruito e l’ultimo operaio avrà finito l’ultimo ritocco… lì, quel giorno, io sarò arrivato alla fine del mio cammino. Dopo… tutto quello che accadrà dopo… non conterà più niente. Ecco, in Elisewin, in Horeau, in Pekisch si realizza luminosamente l’unica, grande aspirazione della piccola umanità baricchiana: la perfezione dell’attimo.
Questi miseri Ulissi che cercano di varcare le loro personalissime colonne d’Ercole, questi bizzarri Prometei che si prodigano in sfide troppo più grandi di loro, questi Baroni di Munchausen alfieri di una pseudo-scienza da bric-à-brac, vivono tutti, a modo loro, lucrezianamente, all’insegna del carpe diem. Anche se nel loro mondo (che è poi, superato lo scarto fantastico dovuto all’invenzione letteraria, il nostro mondo) i valori non sono più così definiti e decifrabili. Baricco infatti rovescia l’ordine razionale e scientifico dell’universo: come nel caso del concerto di Pekisch, l’adesso e l’infinito sono fusi indissolubilmente insieme, l’infinitesimale e l’incommensurabile appartengono allo stesso ordine di grandezza. Con una sola, fondamentale, provocatoria differenza: se l’oceano (la natura, l’universo) ad un certo punto finisce, come sembra voler dimostrare Bartleboom con la sua curiosa “Enciclopedia dei limiti”, è nell’uomo, “il salvifico granello dell’uomo che inceppa il meccanismo” del mondo, che si cela il vero infinito. Nell’uomo e nei suoi desideri. “Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente – dice Ann Deverià a Elisewin -: il dovere, l’onestà, essere buoni, essere giusti. No. Sono i desideri che salvano. Sono l’unica cosa vera”. E i desideri sono infiniti, inesauribili, tanto che “la vita stessa non è abbastanza grande per tenere insieme tutto quello che riesce a immaginarsi il desiderio”.
Dice ancora Pekisch a Pehnt: “I desideri sono le cose più importanti che abbiamo e non si può prenderli in giro più di tanto. Così, alle volte, vale la pena di non dormire pur di star dietro a un proprio desiderio. Si fa la schifezza e poi la si paga. E solo questo è davvero importante: che quando arriva il momento di pagare uno non pensi a scappare e stia lì, dignitosamente, a pagare”. E i personaggi di Baricco non scappano mai di fronte al destino e dignitosamente, come veri eroi tragici, pagano il loro tributo alla vita: Hector Horeau impazzisce e finisce rinchiuso in un manicomio, Pekisch naufraga nella tempesta di note che scoppia un giorno dentro la sua testa, Elisewin perde per sempre Adams, Adams perde per sempre Elisewin. Alla fine il destino riesce comunque ad avere il sopravvento. Dopo un breve deragliamento, la vita prosegue imperterrita sui suoi binari prestabiliti fin dalla notte dei tempi. Neppure l’amore per la propria donna riesce ad avere la meglio, perché “ognuno ha il suo viaggio, da fare”, e non esiste la salvezza definitiva, anche quando si vorrebbe più di ogni altra cosa al mondo proprio salvarsi.
C’è, a dire il vero, un’altra strada che l’uomo può percorrere: quella di prendere, alla fine di tutto, commiato da sé stessi, consegnare la propria vita al ricordo, ed entrare in un tempo immobile, che non è ancora morte, e al tempo stesso non è più vita. “Quello che sei ti scivola addosso, a poco a poco… Il presente sparisce e tu diventi memoria. Sgusci via da tutto, paure, sentimenti, desideri: li custodisci, come abiti smessi, nell’armadio di una sconosciuta saggezza, e di un’insperata pace… Quel che io sono, è ormai successo: e qui, e ora, vive in me come un passo in un’orma, come un suono in un’eco, e come un enigma nella sua risposta. Non muore, questo no. Scivola dall’altra parte della vita. Con una leggerezza che sembra una danza. E’ un modo di perdere tutto, per tutto trovare”. E’ il destino di Ann Deverià, e della stessa Elisewin, è il rovescio della medaglia dei tanti roghi esistenziali che hanno bruciato i vari Pekisch, Hector Horeau, signor Rail, Adams. E’ il destino, ancora, di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, il quale, di fronte a un mondo troppo bello ma anche troppo grande e smisurato da affrontare per un povero musicista (“Se quella tastiera è infinita, allora / Su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio”), decide di scendere, gradino dopo gradino, dalla propria vita, di spogliarsi gradualmente dei propri desideri, incantandoli, immobilizzandoli, per riuscire a disarmare l’infelicità.
La morale, alla fine, è però sempre la stessa: messi di fronte al destino, tutti i personaggi di Baricco si trovano a sperimentare l’infantile capacità di meravigliarsi, come se il loro sguardo, ritornato vergine, si posasse per la prima volta sulle cose. E’ “uno sguardo per cui guardare già è una parola troppo forte – sguardo meraviglioso che è vedere senza chiedersi nulla, vedere e basta – qualcosa come due cose che si toccano – gli occhi e l’immagine – uno sguardo che non prende ma riceve, nel silenzio più assoluto della mente, l’unico sguardo che davvero ci potrebbe salvare – vergine di qualsiasi domanda, ancora non sfregiato dal vizio del sapere – sola innocenza che potrebbe prevenire le ferite delle cose quando da fuori entrano nel cerchio del nostro sentire – vedere – sentire – perché sarebbe nulla di più che un meraviglioso stare davanti, noi e le cose, e negli occhi ricevere il mondo tutto – ricevere – senza domande, perfino senza meraviglia – ricevere – solo – ricevere – negli occhi – il mondo. Così, solamente, sanno vedere gli occhi delle madonne, sotto le arcate delle chiese, l’angelo sceso da cieli d’oro, nell’ora dell’Annunciazione”. Così, alla fine del loro viaggio fluviale, Elisewin e Padre Pluche, guardano l’oceano che si apre davanti ai loro occhi: “Come un incantesimo. Senza neanche un pensiero in testa, un pensiero vero, solo stupore. Meraviglia".
Di questa meraviglia sono depositari i cinque bambini della locanda, provvidenziali genii loci che prendono in custodia le goffe ed incerte vite degli adulti. Essi insegnano loro ad aprire gli occhi sul mondo (Dira che veglia Elisewin nella sua prima notte alla locanda), a guardare là dove sembra non ci sia nulla da guardare (“Cosa ci fai tutto il tempo seduto qua sopra?”. “Guardo”. “Non c’è molto da guardare…”. “Scherzate?”), perfino ad esprimere l’inesprimibile (Plasson che si propone di dipingere il mare). Il campione di questo atteggiamento è Mormy, il ragazzo che ha la rara virtù di riconoscere la vita in quei momenti misconosciuti e trascurati, i quali invece, pur senza darlo a vedere, segnano irrevocabilmente l’animo delle persone, e da questi momenti, in cui la vita “vive più forte del normale”, si fa catturare e ipnotizzare, preda di uno stupore assoluto e senza difese. Proprio a causa di questa meraviglia, in virtù della quale le cose diventano per lui prodigi, incantesimi e visioni, Mormy muore, al contrario di Pehnt che invece le stesse cose impara a catalogare e classificare, rendendole comprensibili e innocue. Pehnt rappresenta la piatta normalità, e difatti Baricco gli assegna una vita tranquilla da assicuratore e buon padre di famiglia, senza tragedie né sorprese di sorta.
Appare evidente che Baricco non nutra per il Pehnt adulto una grande simpatia. Egli sta con coloro che invece hanno scelto di “vivere allo scoperto, sempre sporti sul cornicione delle cose, a cercare l’impossibile, a spiare tutte le scappatoie per sgusciare via dalla realtà”, e che, come Bartleboom, senza comportarsi da eroi, pure “tengono su la baracca”. Ad essi è riservata spesso una fine tristissima: Andersson ed Hector Horeau muoiono tra rantoli ed imprecazioni, Adams finisce impiccato sulla pubblica piazza. Ma Baricco non si commuove mai e narra tutto ciò con una prosa anti-romantica e anti-sentimentale. A lui interessano veramente solo gli attimi di vita che ardono come fiaccole lungo le esistenze dei suoi personaggi. Il resto non conta, perché “dove la vita brucia davvero la morte è un niente”. E come i suonatori della banda sfilano senza fermarsi accanto al cadavere di Ort, così Baricco passa oltre la morte dei suoi eroi, quasi che essa fosse del tutto irrilevante nell’economia del romanzo.
Il fatto è che in Baricco non c’è alcuna idea di trascendenza. Così come il treno per il signor Rail simboleggia il destino (“un proiettile che corre e non sa se ammazzerà qualcuno o finirà nel nulla, ma intanto corre e nella sua corsa è già scritto se finirà a spappolare il cuore di un uomo o a scheggiare un muro qualunque”), allo stesso modo la zattera dell’episodio “Il ventre del mare”, abbandonata al suo destino dalle lance di salvataggio, rappresenta la migliore metafora di un’umanità orfana di Dio e lasciata in balia di se stessa in un universo (l’oceano) praticamente privo di senso. Il vero Dio dei personaggi, l’unico demiurgo che dall’alto della sua onniscienza, governa consapevolmente la loro sorte, è lo stesso scrittore. E non sembri, questa, un’affermazione lapalissiana (ogni libro ha evidentemente il suo autore), dal momento che nei romanzi di Baricco c’è sempre una finzione – se così si può dire – di secondo grado, e al termine della narrazione viene sempre svelato il trucco, ossia il meccanismo della creazione letteraria.
Così come il giudice del “Film rosso” di Kieslowski (ancora lui!) tira i fili dell’intreccio, muove tutte le azioni e i sentimenti, fa incontrare tra loro Auguste e Valentine, allo stesso modo l’uomo della settima stanza e la donna che attraversa l’oceano alla volta dell’America sono gli dei ex machina, gli artefici di quella che si rivela essere semplicemente una invenzione, una storia di pura fantasia. La locanda Almayer e Quinnipak non esistono, e così i vari Charlus Abegg, Marius Jobbard, Pekisch il maestro di musica, Pehnt l’assicuratore, il vecchio Andersson, i treni che portano fino al mare, il palazzo di vetro che finisce incendiato: tutti pretesti che la prosaica realtà fornisce affinché lo scrittore-illusionista compia il miracolo, reinventandoli grazie alla fantasia. In queste favole si realizza l’autentica funzione della letteratura, che è quella di aiutare a vivere meglio, facendo sognare la gente, smussando le asprezze della vita, addolcendo le bestemmie, romanticizzando gli addii, rendendo nobili gli ideali, eterni gli amori e ineluttabili le morti. E soprattutto creando una vera e propria teodicea del destino cui aggrapparsi per vincere lo schifo e la stanchezza di stare al mondo. In questo senso, lo scrittore è una sorta di messia laico, che di fronte all’inesorabilità di ciò che è innalza a mo’ di baluardo l’infinito repertorio di ciò che potrebbe essere. Ovverossia, la fantasia e i sogni contro la realtà.
“Quanto sarebbe bello se, per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume, per noi. E qualcuno – un padre, un amore, qualcuno – capace di prenderci per mano e di trovare quel fiume – immaginarlo, inventarlo – e nella sua corrente posarci… Sarebbe dolce, la vita, qualunque vita. E le cose non farebbero male”. Il mare rappresenta evidentemente, per Baricco, la salvezza, il fiume i racconti e le storie. Così come Langlais, che riceve da Elisewin, come un dono, le storie che lei stessa ha assorbito da Adams, parimenti gli uomini hanno un disperato bisogno dell’immaginazione e della fantasia di un narratore per suturare le dolorose ferite dell’esistenza, o semplicemente per prendere un attimo di respiro prima di rituffarsi nel caos del mondo, oppure – perché no? – per sentirsi dire, affettuosamente, che vale la pena vivere, sempre e comunque, magari anche solo per “esserci, quando in quella luce irripetibile che è la luce della sera, inopinatamente, piove. Almeno una volta, esserci”. Perché il miracolo possa compiersi, almeno una volta, anche per noi.

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Dopo "Seta" (mollato) , di Baricco non ho letto più nulla.
In risposta ad un precedente commento
kafka62
08 Aprile, 2019
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Ciao Emilio, io non credo di essere un fan di Baricco, ma quando vedo che molta critica, forse indispettita dal suo successo popolare e dalla sua aura da pop star, lo tratta come un Moccia qualsiasi rimango allibito. "Seta" l'ho letto senza amarlo troppo (mollarlo è davvero difficile, visto che è lungo appena un centinaio di pagine!), ma nei primi due romanzi (e anche in "Novecento") ho trovato una grande abilità affabulatoria e una notevolissima capacità di generare emozioni non banali. Certo, Baricco non è Pavese o Pasolini, ma se non si fa troppo gli schizzinosi e si è disposti a passare sopra a un certo barocchismo stilistico e a una scrittura un po' compiaciuta, che mira a stupire ad ogni pagina, la sua lettura può a mio parere riservare delle sorprese assai gradevoli. Buone letture.
In risposta ad un precedente commento
Matelda
08 Aprile, 2019
Ultimo aggiornamento:
11 Aprile, 2019
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Anche io , Emilio. Grazie !!! Mi sentivo sola ..
A dire il vero, durante un viaggio di lavoro, acquistai e cominciai a leggere Oceano mare ,arrivai a metà e... lo mollai.
Baricco è bravo , no doubt, ma , secondo me e per me , è come quando ascolto ad es. una romanza o un brano sinfonico . Magari riconosco che sono eseguiti bene , ma non vi trovo la scintilla particolare che mi coinvolge... insomma la cifra dell'artista di genio.
Quindi rispetto l'altrui entusiastica opinione , ma non la condivido.
Ciao Giulio! Sempre un piacere leggerti! Per altro, non entro nel merito di Oceano Mare che ho letto tempo fa, ma mi sorprendono sempre i rifermenti cinematografici che sai cogliere. Per altro ho visto la trilogia dei colori di Kieslowski tempo fa, in un contesto molto particolare e me lo hai fatto ricordate con una punta di malinconia. A volte i film, come i libri, ci accompagnano in modo inaspettato.
In risposta ad un precedente commento
kafka62
09 Aprile, 2019
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Grazie Daniele. È vero, amo molto il cinema e, quando posso, mi piace inserire delle citazioni cinematografiche, un po' come fai tu, certo con maggior spessore intellettuale, con la filosofia. Del resto, la recensione ideale, secondo me, dovrebbe essere a 360 gradi e non fermarsi alla sola letteratura, ma comprendere anche teatro, pittura, musica, ecc.
In risposta ad un precedente commento
DanySanny
09 Aprile, 2019
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Facci una lista di film da vedere, così ci acculturiamo anche noi ahahah
"Novecento " mi è piaciuto. "Oceano mare", solo nella prima parte; poi i barocchismi dell'autore sono per me troppo pesanti (amo la scrittura lieve).
Più vado avanti come lettore e nella vita, più mi accorgo che ogni libro 'così così ' toglie il posto a un libro bello o bellissimo : il nostro tempo non è illimitato.
In risposta ad un precedente commento
Matelda
11 Aprile, 2019
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Ancora una volta sono d'accordo con te Emilio! Grazie !
In risposta ad un precedente commento
kafka62
11 Aprile, 2019
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Hai ragione, Emilio. Se non si è lettori da un libro ogni due-tre giorni è necessario essere molto selettivi. Anche a me dispiace incappare in un romanzo non all'altezza delle aspettative, anche perché io - a differenza tua - non sono capace di abbandonare una lettura a metà. Buone letture.
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