Dettagli Recensione
Una piccola gemma italiana
"Diceria dell'untore" è uno di quei libri che lasciano la traccia, perché hanno qualcosa da dire, qualcosa di importante. Questo libro è la testimonianza di un sopravvissuto, un io Narrante, a due grandi disgrazie: la seconda guerra mondiale ("La guerra era dietro di noi, ma sulla giacca era rimasto il segno della bandoliera, e l'agro della polvere nelle narici e nelle mani. Mani che avevano sparato, forse ucciso.") e la tubercolosi ("Grande un cinquecentesimo di millimetro, ma boffice e vitale come quando lo respirai la prima volta. Chissà come giunse da me, con quale sputo da vecchio o bacio di puttana o spora di vento, vallo a sapere.").
L'atmosfera descritta è cupa, come si può dedurre già dall'incipit, con il sogno rincorrente della morte (che "è un paravento di fumo fra i vivi e gli altri. Basta affondarci la mano per passare dall'altra parte e trovare solidali dita di chi ci ama."), che viene tenuta per mano durante tutto il romanzo. Siamo nel 1946, in un sanatorio che accoglie le persone malate di tubercolosi senza più speranza di guarigione, persone che rimpiangono il vigore della gioventù passata e cercano di guardare con rassegnazione la condizione attuale e pian piano imparano dagli altri a morire. L'unico svago e fuga alla vita normale sono le uscite in città, la domenica, e qualche incontro triste, clandestino e insoddisfacente con una donna ("Andare fra la gente, giù in città, portarsi addosso il cencio del corpo, questa somma insufficiente di lena e di sangue, in mezzo a sani della strada, atletici, puliti, immortali...").
E' un libro che da anche una speranza, il Narratore, dopo una degenza di qualche mese, riesce a guarire completamente e a tornare nel mondo dei vivi. Ma dopo aver imparato a vivere sotto l'ala della morte, ad attenderla e a desiderarla come si fa ad imparare nuovamente a vivere?...("Dove ritrovare il me stesso ragazzo, come sanarlo di quell'infezione: l'ingresso dell'idea di morte nell'intimità di un cuore innocente?")...Infatti, dopo aver sofferto e dopo aver affrontato la morte dei suoi amici nel sanatorio e infine della sua amata, contagiata dallo stesso male, dopo aver lottato contro la propria morte uscendone vincitore, tornare alla normalità è molto difficile ed i sogni del sanatorio, il controllo quotidiano della saliva, il ricordo di Marta, la sua amata, continuerà per anni e anni a venire. Generalmente la guarigione e il ritorno alla vita rappresenta una benedizione, una rinascita, qui invece, dal punto di vista psicologico, non è altro che un'ulteriore condanna ad una vita di sofferenze, ricordi, paure e inadeguatezze ("I giorni più infelici della mia vita sono stati i più felici").
Questo libro nasce dall'esperienza diretta dell'autore presso il sanatorio Rocca, descritto nel suo libro e spesso mi ha ricordato la Montagna incantata di Mann. Anche se libri diversi per nozioni ideologiche (Mann tratta un'ampia vastità di idee invece Bufalino la morte, la malattia e un reintegro nella normalità), l'ambientazione nel sanatorio, la cura del riposo sulla sedia a sdraio sulla veranda, il succedersi dei nuovi malati arrivati a quelli da poco deceduti, la radiografia di Marta che il narratore ruba dalla Sala Raggi per accarezzarla nella sua stanza e confrontarla con la propria, la condizione "romantica" del malato, il medico che vive in mezzo ai malati come un loro punto di riferimento.....tutte queste cose mi hanno riportato in mente Mann.
Concludo con questo ultimo frammento di incredibile verità e sublime poesia:
"Certo oscilla fra contrattempi e incastri senza numero il gioc'a tombola della nostra vita. Non si conosce mai chi si vuole, ma chi si deve o chi capita, secondo che una mano sleale ci rimescoli, accozzi e sparigli, disponendo o cassando a suo grado gli appuntamenti sui canovacci dei suoi millenni."