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IL SILENZIO E I RICORDI
Siamo nel 2017 ed è attraverso il racconto del protagonista, Domenico Boschis, che il lettore si addentra nel mondo delle Langhe, zona meravigliosa nota per i suoi vini, le sue colline, i suoi paesaggi, meno per quel volto aspro, duro, della terra e dei suoi abitanti così ben descritto da Fenoglio, da Pavese e ora da Perissinotto. Domenico Boschis è il nome reale (non quello d’arte) di un famoso attore di fiction televisive e teatro che dopo molti anni torna al suo paese vicino Alba quando viene informato che suo padre, col quale aveva pochi e formali rapporti (“…non lo sentiva da Natale, il solito breve scambio di auguri”), è ricoverato in fin di vita in un hospice. Suo malgrado Domenico viene sempre più catturato dai ricordi, dalla sua vecchia casa, dal sidecar Jawa (legato all’unico bel ricordo della sua vita col padre), dal cane Pajun, insomma da quella terra e da quei luoghi che aveva fatto di tutto per tenere lontano, sepolti dentro nuove vite, Torino prima, Roma poi; riscopre con piacere le vecchie amicizie, Caterina Umberto Francesco, riscopre il piacere di essere figlio quando va a trovare sua madre e il suo compagno, Franco. Suo padre, però, fra uno stato soporoso e l’altro, sconvolto, un pianto asciutto ed un urlo muto, gli parla di una “ragazza”. Domenico scopre che si tratta di Maria Teresa Novara, una bambina di 13 anni che fu rapita e ritrovata morta dopo sette mesi in un paese lì vicino nel 1969. Cosa c’entra suo padre con lei e perché è così sconvolto?
Mi fermo qui con la trama anche perché si può pensare che la chiave di lettura del romanzo sia il canovaccio giallo ma non è così: in questo splendido ed emozionante libro vengono toccati temi come la dignità del fine vita, l’amor filiale, la violenza sulle donne e l’indifferenza (che a volte rasenta la complicità) delle persone. Tutti questi elementi hanno pari importanza rispetto al racconto del fatto di cronaca in sé che nella sua tragicità ci porta a fare collegamenti anche con fatti avvenuti di recente. Domenico Boschis ha 50 anni, non vede più la vita in bianco e nero come nell’adolescenza ma sa che esistono diverse sfumature di grigio; arriva un momento della vita nel quale bisogna fare i conti col proprio padre (figura sbagliata o no che sia), con ciò che è stato, con il nostro amore per lui che viene dal profondo, a dispetto dei nostri pensieri. Questo rapporto padre-figlio viene approfondito dall’autore con l’aiuto di brani de “La lettera al padre” di Kafka, altrettanto fa con l’asprezza di quelle terre con brani da “La malora” di Fenoglio Quale contenuto mi ha colpito di più in questo romanzo? Senza dubbio l’immutato atteggiamento nei confronti delle donne; amaramente ho scoperto che nonostante i 70 anni trascorsi dai racconti di Fenoglio, i 50 trascorsi dalla storia raccontata da Perissinotto per le donne non è cambiato molto. Umiliate, picchiate, stuprate, vendute e uccise: è questo il loro destino oggi come ieri, così come l’essersela cercata o l’indifferenza che c’è nei confronti di questi crimini –“ Lei aveva vissuto l’orrore della vita vera, nella banalità di una cascina in provincia di Cuneo, nell’indifferenza di investigatori distratti che la credevano in giro per il mondo a godersi la vita…”-.Lo stile di scrittura elegante, a tratti poetico di Perissinotto ci lascia un romanzo profondo ma duro, che racconta anche di abomini e crudeltà ma che lascia anche spazio alla speranza e all’amore come nelle bellissime ultime righe del finale.