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Diceria dell'untore
 
Diceria dell'untore 2018-11-29 22:05:16 cesare giardini
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    30 Novembre, 2018
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Un romanzo tra sogno e realtà,

Ho scoperto solo in tarda età questo capolavoro della letteratura italiana, un classico che Bompiani ha pubblicato nella collana dei classici contemporanei qualche anno fa (2016). Il romanzo, che ha meritato il Premio Campiello, è stato dato alle stampe dall’Autore nel 1981 dopo una lunghissima e tormentata gestazione: iniziato nel 1950, scritto e riscritto più volte, ripreso dopo una lunga pausa nel 1971, ha visto finalmente la luce nel 1981, dopo un lungo periodo di limature, aggiunte, aggiustamenti minuziosi, ripensamenti, ed è diventato immediatamente un caso letterario. Come è noto, narra le vicende dell’alter ego dell’Autore, malato di tisi, ricoverato con altri militari, dopo un soggiorno a Sondalo ed a Scandiano, nel sanatorio della Rocca a Palermo dal quale uscirà nel 1946 ufficialmente guarito (forse l’unico), poco dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il giovane (l’Autore è nato a Comiso nel 1920) ha 25 anni, e racconta le sue esperienze nel nosocomio palermitano, con accenti ironici e disperati, convinto che la vita abbia molti punti oscuri e rari bagliori di speranza, e che la rassegnazione consapevole sia l’unica via d’uscita. E’ oltremodo arduo esprimere un giudizio su un capolavoro siffatto: non sai se parlare dei variopinti e singolari personaggi che popolano la storia, dal Grande Magro, il direttore medico, bizzarro e originale che morirà alla fine stroncato dalla cirrosi al cappellano del sanatorio, padre Vittorio dalla fede tormentata e vacillante, dal piccolo Adelmo messaggero di missive d’amore, ai compagni di sventura tutti segnati dal morbo, oppure del tipo di scrittura, unica e preziosa, che l’Autore definirà “archeologica, defunta, obbediente a un disegno di restaurazione signorile”. Ed è proprio la scrittura che incanta, riletta oggi, in un panorama letterario di banalità e di cosiddetti capolavori ripetitivi ed annoianti. Una scrittura non usuale per i lettori d’oggi, come sospesa tra sogno e realtà, a volte straziante a volta ironica, caratterizzata da parole classicheggianti, anche desuete, metafore, iperboli, riferimenti letterari antichi e moderni: ci si perde come in un magico e attraente labirinto, ove perdersi è incanto ed esperienza gratificante. Ed è con questa scrittura che si dipana la storia d’amore tra l’io narrante protagonista e Marta Levi, l’uno reduce di guerra in via di guarigione, alla ricerca disperata di sé stesso e di affetti dimenticati, l’altra con un tormentato passato di collaborazionista, tesa a giocarsi in un angoscioso susseguirsi di scontri/incontri l’ultima possibilità di una vita segnata ormai da un imminente esito fatale. Incombe la morte, palese o sottintesa, tema dominante tra malati inguaribili, rassegnazione e speranza di redenzione.
Il romanzo, in 17 capitoli, era corredato nelle primitive stesure da componimenti poetici (uno per capitolo), éditi poi in una successiva opera. Bompiani, al termine del romanzo, raccoglie in un’appendice queste poesie, assieme ad altre aggiunte dell’Autore: dediche riportate sulle lapidi dei personaggi, alla maniera dell’Antologia di Spoon River, delucidazioni a mò di “istruzioni per l’uso per chi ha le orecchie più semplici” sui riferimenti inseriti nel romanzo ( letterari, musicali), infine una guida sui temi trattati (morte, malattia, guarigione, olocausto …).
Un romanzo complesso da centellinare parola per parola, un grande autore classico (deceduto nel 1996) da inserire tra i maestri della letteratura contemporanea.

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