Dettagli Recensione
24 ore nel cottolengo torinese
Testimonia l’aderenza a un filone, quello del realismo e di un diretto impegno politico e intellettuale sullo sfondo di un romanzo autobiografico che affronta la crisi dell’intellettuale incapace di trovare una ragione nell’impegno politico e civile.
Siamo a Torino nel 1952, anno in cui si tennero le elezioni politiche decisive per la stabilità del governo. Quello della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati aveva approvato una legge (truffa secondo gli avversari) in base alla quale lo schieramento politico che avesse superato la maggioranza del 50%+1 avrebbe ottenuto un gran numero di parlamentari a scapito della minoranza. La tensione politica era altissima e il contrasto “democristiani-comunisti” era il facile argomento su cui disquisire.
E anche scrivere un saggio come fece Calvino, una riflessione solitaria sul ruolo dell’intellettuale d’orientamento illuminista e di ideologia marxista. Calvino-Amerigo Ormea (il protagonista de “La giornata di uno scrutatore”), è scrutatore per conto del PCI, di un seggio elettorale istituito al Cottolengo di Torino, dove sono ricoverati pazzi, deficienti, minorati mentali e fisici. Il suo compito è di impedire che persone prive di una loro volontà siano indotte da suore e preti a votare per la DC.
Per i ricoverati più gravi viene istituito un “seggio distaccato” di cui Amerigo si trova a far parte. Conosce così l’inferno della malattia, di fronte alla quale la situazione che vive (le elezioni, l’imbroglio di far votare esseri incoscienti, la strenua ricerca di un voto), rivela tutta la sua insensatezza. La sua attenzione è presto attirata da scene di amore e carità cui sono protagoniste le suore e soprattutto un vecchio padre contadino che spezza le mandorle al figlio menomato. Questi aspetti della realtà mettono in crisi un’ideologia giocata sul progresso sociale ma incapace di far fronte al condizionamento dettato dalla natura.
Non solo. Nonostante la sua brevità (che non coincide con leggerezza, tutt’altro), La giornata di uno scrutatore, è un libro di crisi: quella vissuta dal protagonista e dall’autore, comunista, progressista e marxista, erede del razionalismo settecentesco quando si scontra con una realtà che non può essere interpretata secondo i suoi prefissati schemi ideologici. Amerigo è un uomo in crisi, in crisi affettiva con la compagna da cui rifugge per la nascita di un bambino, in crisi di valori con la sfilata dei malati del Cottolengo.
E’ in gioco non solo la “volontà popolare” che si esprime nella consultazione elettorale: è in gioco un interrogativo esistenziale che riguarda la natura umana. Davanti alle misere “creature” del Cottolengo, Amerigo si chiede con insistenza: “fino a dove un essere umano può dirsi umano”? La risposta gli è suggerita proprio da quel padre che schiaccia le mandorle al figlio” l’umano arriva dove arriva l’amore”.
E’ un libro, “la giornata di uno scrutatore” caratterizzato da un linguaggio immediato, frasi semplici, di grande nitidezza espressiva, che respinge ogni eccesso, non sottolineando la vacuità dell’orrore. La descrizione dei malati è impietosa e puntuale ma non grottesca. Non è questo il libro di Calvino, tutt’altro. Lo stile si concentra sull’osservazione e sull’esattezza dei contorni e delle proporzioni che citando le indimenticabili lezioni americane dello scrittore si concentrano su:
1. un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato;
2. l’evocazione d’immagini visuali nitide, incisive, memorabili; in italiano abbiamo un aggettivo che non esiste in inglese, “icastico”, dal greco “eikastikós”;
3. un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione.”
Perché sento il bisogno di difendere dei valori che a molti potranno sembrare ovvii? Credo che la mia prima spinta venga da una mia ipersensibilità o allergia: mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un'intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d'insoddisfazione di cui posso rendermi conto. La letteratura - dico la letteratura che risponde a queste esigenze - è la Terra Promessa in cui il linguaggio diventa quello che veramente dovrebbe essere.
Alle volte mi sembra che un'epidemia pestilenziale abbia colpito l'umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l'uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l'espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze. Non m'interessa qui chiedermi se le origini di quest'epidemia siano da ricercare nella politica, nell'ideologia, nell'uniformità burocratica, nell'omogeneizzazione dei mass-media, nella diffusione scolastica della media cultura. Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l'espandersi della peste del linguaggio.
Vorrei aggiungere che non è soltanto il linguaggio che mi sembra colpito da questa peste. Anche le immagini, per esempio. Viviamo sotto una pioggia ininterrotta d'immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza d'imporsi all'attenzione, come ricchezza di significati possibili. Gran parte di questa nuvola d'immagini si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria; ma non si dissolve una sensazione d'estraneità e di disagio. Ma forse l'inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio né fine.
Mai scritto è più attuale.