Dettagli Recensione
LA REINVENZIONE DEL LINGUAGGIO
E’ ogni volta un sublime, sofisticato piacere per gli occhi e per la mente leggere un libro di Carlo Emilio Gadda, scorrere le sue pagine stracolme fino all’inverosimile di incredibili invenzioni linguistiche, assistere al magistrale disvelamento di una umanità colta sempre, anche quando si tratta di personaggi ai margini della storia narrata, nei suoi aspetti più peculiari e inconfondibili, grazie a rapidi ed arguti schizzi in cui la sineddoche (un esempio per tutti, i “quadrupedanti zoccoli” del Poronga e degli altri peones) viene portata a livelli eccelsi. Gadda è un “unicum” nel panorama del romanzo del Novecento: pur non potendo definirsi un avanguardista, egli ha stravolto, non meno di Joyce o di Proust, ogni regola e consuetudine precedente, spingendosi talmente lontano nella sua originalissima ricerca letteraria da non riuscire mai ad esercitare una reale influenza sugli scrittori del suo tempo e dei decenni a venire, italiani e stranieri (viene d’altronde difficile immaginare come può essere realizzabile in concreto una traduzione in altre lingue delle sue opere). I suoi romanzi sono oggetti inafferrabili, che potrebbero in teoria espandersi all’infinito, e difatti non hanno mai conosciuto la parola fine, rimanendo tutti inevitabilmente incompiuti.
Lo stile di Gadda è estroso, pirotecnico, barocco (nel senso migliore del termine): esso opera una continua reinvenzione del linguaggio ed è la dimostrazione lampante di come il vocabolario non sia un qualcosa di statico e definito, ma, soprattutto attraverso l’uso di arditi neologismi e di fantasiosi termini dialettali, un’entità sorprendentemente fluida, viva e multiforme, mai del tutto catalogabile e definibile. Se solo ci si limita alle prime pagine de “La cognizione del dolore”, si può leggere ad esempio che uno scrittorucolo cincischia i suoi “ribòboli” sterili, il clima è “grandinifero”, il vapore è un “bioccolìo” bianco, lo sterco di mucca diventa “la fianta verdastra e pillaccherosa spappata dalle vaccine”, le ville sono “politecnicali prodotti”, il fulmine “sparnazza” dappertutto, la donna che accudisce i polli è “polluta”, la civetta dà uno “strido invido ed ominoso”, la famiglia è “cuginifera”, e poi ancora proliferano termini come “lucubrativo”, “crassume”, “glugolare” e “pasturellare”, che traggono il fascino dalla loro onomatopeica forza evocativa. Contemporaneamente, e in apparente contrasto, Gadda usa anche una terminologia arcaica, desueta e anacronistica, con latinismi, vocaboli colti (noumenico, anagènesi, austione) e modi di dire fuori moda (amistà per amicizia, affossatore per becchino, malinconioso per malinconico). Pur rimanendo ancorato in maniera ferrea ai dati della realtà, Gadda li trascende e li trasforma con un idioma che, sebbene lambiccato ed astruso, mantiene pur sempre la scorrevolezza e la musicalità della lingua colloquiale, misteriosamente intelligibile anche al lettore non iniziato (non è un caso che lo stesso procedimento di estraniazione-riconoscimento l’autore lo adotti anche per il luogo dell’azione, il fantomatico e inventato Maradagàl, nel quale è possibile riconoscere luoghi ben altrimenti familiari agli italiani dell’epoca). Quello di Gadda non è un “gramelot” che fa il verso al vernacolo popolare, nel senso che non è un linguaggio che aspira ad una sua artificiosa naïvètè, bensì un’entità che va in direzione dell’astrazione anziché del coinvolgimento emotivo, che pone il suo autore in una posizione “altra” rispetto alla realtà descritta e da cui deriva un’ironia sapiente ed affilata ed uno spirito di osservazione demiurgico che ne fa una sorta di Proust alla rovescia (per credere a questa affermazione si legga la delirante e spassosissima descrizione del ristorante alle pagine 155 e seguenti, la quale sembra proprio fare il verso, in chiave satirica e “burina” alle analoghe, aristocratiche, cerimonie agapiche proustiane).
Le suddette considerazioni stilistico-formali non devono fare passare in sottordine la sostanza drammatica dell’opera. Così come don Ciccio Ingravallo, l’indimenticabile commissario di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, anche don Gonzalo Pirobutirro e sua madre risultano personaggi di straordinaria umanità, espressioni di una sensibilità drammatica e dolorosa che il ghigno beffardo di Gadda cela appena, un po’ come accadeva con Gogol, dietro un sottile e labile velo. Mentre la prima parte del romanzo è divagante e centrifuga, e si trattiene volentieri dietro a personaggi secondari come il vigile-ciclista Palumbo, il colonnello Di Pascuale e il cavalier Bertoloni, privilegiando atmosfere e caratteri e introducendo il protagonista indirettamente, attraverso l’intervento di una sorta di coro (tutte le figure paesane hanno non a caso nomi simili, Peppa, Beppina, Giuseppe, ecc) e dell’immancabile ”si dice che” popolare, la seconda è introspettiva, monologante, e si nutre di sensazioni intime e individuali. Emerge a questo punto prepotentemente il personaggio di don Gonzalo. Pervaso da un acuto male di vivere, da una sofferenza intensa ed opprimente, don Gonzalo è una sorta di Oblomov in cui alla triste consapevolezza della propria condizione e della perdita degli antichi privilegi non si accompagna più alcun idealismo, sia pure velleitario, ma solo un tetro disgusto verso la sconcia vitalità degli uomini, un livore compresso e rabbioso verso la vita e uno scetticismo assoluto e metafisico che esclude qualsiasi prospettiva di riscatto e palingenesi. L’unica dimensione in cui don Gonzalo trova una propria identità è la negazione: negare (e allontanarsi così dai propri simili, sua madre compresa) è però un comportamento autodistruttivo, il quale annulla, nonostante l’innegabile percezione di una sofferenza trascendente, ogni possibilità di immedesimazione e di comprensione da parte del lettore. A fare da contrappunto a quello di don Gonzalo è il personaggio della Signora: la sua incanutita solitudine che si aggira per le stanze silenziose della vecchia villa, rimembrando una vita piena di dolore, di rinunce e di rassegnazione, e il suo amore materno frustrato dalla paura delle bizzose, colleriche e imprevedibili reazioni del figlio, trovano nelle pagine a lei dedicate toni accorati, elegiaci e dolenti. A lei Gadda riserva una morte violenta, che sembra preludere a una svolta “gialla” (l’assassino è il figlio partito per un breve viaggio, il fattore da poco licenziato o un ladro di passaggio?), ma l’inattesa interruzione anticipata decisa dall’autore non ci permette di intuire gli sviluppi potenziali e gli esiti possibili di quello che rimane comunque uno dei più bei romanzi della letteratura italiana.
Indicazioni utili
Commenti
6 risultati - visualizzati 1 - 6 |
Ordina
|
6 risultati - visualizzati 1 - 6 |
Fortunatamente l'ho letto prima del Pasticciaccio, per me troppo artefatto. se fosse capitato il contrario, forse avrei mollato subito Gadda.