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"Se ce ne andremo avranno vinto loro"
«Odio piangere perché è da idioti, e perché non mi consola. Mi fa solo sentire spossata, senza più voglia di mandare giù un boccone o di infilarmi la camicia da notte prima di andare a dormire. Invece bisogna curarsi, stringere i pugni anche quando la pelle delle mani si copre di macchie. Lottare a prescindere. Questo mi ha insegnato tuo padre»
Un campanile. Un campanile che emerge dalle acque, da un lago alpino ricavato artificialmente mediante l’intervento dell’uomo. Un oggetto di turismo, un motivo di “selfie”, una ragione di visita di questi luoghi siti ad oltre 1.500 metri sul mare. Siamo a Curon Venosta e quella che l’occhio ci mostra non è altro che una punta di un iceberg perché sotto quella distesa d’acqua che percepiamo con il senso della vista, nei suoi fondali ormai dimenticati, si cela quello che un tempo era il paese. Un piccolo salto nel tempo. Da qui la voce narrante, una moglie, una madre, una donna; Trina. Una donna che insieme a suo marito Erich e ai paesani ha subito le forze degli italiani fascisti, prima, e dei nazisti, dopo. Due forze tra loro ambivalenti, fatte di promesse, di presunti salvatori e eroi. La non appartenenza all’uno né all’altro. Una lotta, per conservare intatto quel luogo chiamato casa. Da qui la memoria che viene rievocata e che riecheggia mediante le parole e i pensieri di Trina. Pensieri e parole che sono rivolti a quella figlia scomparsa, a quella figlia che in un certo senso ha tradito l’affetto dei suoi genitori e di suo fratello. Eppure la madre non può dimenticare quel legame; è come se le fosse stato reciso un arto, le manca qualcosa. E allora le racconta, e mentre le narra i fatti che si sono susseguiti nello scorrere di quegli anni a cavallo tra la Seconda Guerra Mondiale, il suo culmine, la Costituente sino all’avvento della Repubblica e al dopoguerra, si chiede il perché di quell’abbandono. Contemporaneamente si assiste alla sconfitta del borgo, alla sua sommersione. Lo conosciamo prima, quando ancora è abitato, quando ancora le famiglie lo rendono vivo nei loro masi, lo percepiamo dopo, nel suo silenzio rumoroso, nel suo stato di defezione. Ed ancora riviviamo quella che è stata la storia di questa realtà del Sud Tirolo, che durante l’epoca fascista si ritrova “invaso” dagli abitanti soprattutto del sud Italia che privano dei vari impieghi pubblici i tirolesi perché la regione doveva essere italianizzata, per poi avere la possibilità di trasferirsi in Germania per sfuggire all’oppressione italiana quale risultato dell’accordo tra Mussolini e Hitler, ed ancora gli anni clou della guerra, il figlio dei protagonisti che si arruola a favore dei nazisti ferendo mortalmente il padre, a quel che viene. Ed è proprio Erich che maggiormente è sinonimo della lotta, della resistenza. Lui che rifiuta di piegarsi agli italiani, lui che rifiuta di piegarsi ai tedeschi, lui che è costretto ad imparare l’italiano pur di farsi comprendere, lui che quella diga proprio non la vuole perché le sue radici, il suo luogo nativo devono restare incontaminati onde evitare di perdere la propria identità. Perché chi siamo se veniamo strappati da quel che ci ha forgiato e da quel che ci ha plasmato rendendoci “tronchi” retti e forti?
«Quello che non vedono non esiste. Dagli un bicchiere di vino e non pensano più a niente.»
«La gente con un dito sulle labbra lascia ogni giorno che l’orrore proceda»
Il tutto avviene mediante la penna asciutta e diretta di Marco Balzano, che studia, approfondisce la tematica, la sviluppa e ce la ripropone in questa chiave di facile lettura e scoperta dove personaggi di fantasia vengono uniti e amalgamati ad altri realmente esistiti, come, padre Alfred che trae origine dal pastore Alfred Rieper, parroco della cittadina sommersa per quasi cinquant’anni che si è battuto per la sua comunità, dovendosi infine, arrendere all’inevitabile. Il risultato finale è quello di un romanzo storico ma anche fortemente attuale che si percepisce e che si incide nell’anima con tutta la sua forza. Pagina dopo pagina, quel campanile lo vediamo non più per la sua punta irta nel lago, quanto per quel sommerso che si occulta nelle sue profondità. Non mancano quindi i sospiri, le riflessioni, la malinconia a fronte di quelle voci, vite e abitudini che udiamo come se fossero nostre. Perché a chiunque, poteva e può capitare. Ma…
«Anche le ferite che non guariscono prima o poi smettono di sanguinare. La rabbia, persino quella della violenza inflitta, è destinata come tutto a slentarsi, ad arrendersi a qualcosa di più grande di cui non conosco il nome. Bisognerebbe saper interrogare le montagne per sapere quello che è stato. La vicenda della distruzione del paese è riassunta sotto una pensilina di legno, nel parcheggio degli autobus delle agenzie di viaggi. Ci sono le fotografie della vecchia Curon, dei masi, dei contadini con le bestie, di padre Alfred che guida l’ultima processione. In una si vede Erich con i compagni del comitato. Sono vecchie foto in bianco e nero infilate sotto il vero di una bacheca, con qualche didascalia in tedesco tradotta in un italiano approssimativo. C’è anche un piccolo museo che apre di tanto in tanto per pochi turisti curiosi. Di quello che eravamo non rimane altro.
Guardo le canoe che fendono l’acqua, le barche che sfiorano il campanile, i bagnanti che si stendono a prendere il sole. Li osservo e mi sforzo di comprendere. Nessuno può capire cosa c’è sotto le cose. Non c’è tempo per fermarsi a dolersi di quello che è stato quando non c’eravamo. Andare avanti, come diceva Ma’, è l’una direzione concessa. Altrimenti Dio ci avrebbe messo gli occhi di lato. Come i pesci.»
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Un caro saluto
Chiara