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Insipido
Ho visto un frammento di Sicilia da nientemeno che un drone. Esordisco in questo modo, perché a parer mio storia e ambientazione in un romanzo devono avere un forte legame, devono andare di pari passo, contrastarsi o trovare complicità, ma in ogni caso, intrecciarsi. "Ciò che inferno non è" mi ha permesso di vedere un frammento di Sicilia, ossia Brancaccio, dall'alto, dandomi l'idea di non essere immersa nella scia degli eventi che accomunano i personaggi, ma piuttosto di esserne fuori in modo irrimediabile, come se fossero tutti quanti chiusi dentro una teca, ed io lettrice fuori a battere sul vetro. Questa visuale che faticava a scendere nel dettaglio dell'ambientazione ha cozzato in malo modo con il punto di vista dei personaggi che si concentravano su pensieri articolati. Insomma la dissonanza tra ambientazione descritta non nel migliore dei modi e viaggi di pensieri fin troppo esasperati, non mi ha reso semplice credere in ciò che leggevo, nonostante la trama e l'idea di fondo promettessero bene.
La figura di Don Pino è troppo studiata, preparata, di un'antipatica perfezione che non può essere umana. L'unico segno dal quale si evince il suo lato umano (in questo caso parlo della manifestazione di una qualsiasi debolezza, che in un contesto del genere è del tutto normale) è verso la fine: la sua paura di morire. L'unico sentimento che mi è parso reale, credibile di questo personaggio si è racchiuso in qualche riga giunta ormai al termine del libro... Troppo tardi. Ahimè, solo per questo barlume non riesco a salvare l'intero testo, perché anche dal punto di vista delle parti dialogate, il prete parlava a volte come un anziano, altre volte come Gesù, altre volte ancora come un bambino. E nessuna di queste manifestazioni di sè mi ha convinto.
Il protagonista non è stato partorito bene dalla penna di D'Avenia, il che può essere sconcertante, visto che l'autore confessa che Federico è il suo alter ego. Con "il ragazzo" è questione di dettagli. Nel suo caso non sono stati i dialoghi, ma le piccole cose a deludermi.
Ad esempio, ricordo un passaggio in cui Federico parla di quando aveva fumato la sua primissima sigaretta, e dice di non aver più fumato da quel giorno, perché dopo una sola sigaretta una tosse cronica, asfissiante, è stata la compagna che per due giorni non l'ha lasciato respirare.
Adesso. Diciassette anni. La prima sigaretta. Non ti posso credere, se mi dici che hai tossito per due giorni, nemmeno se mi impegno. Una sigaretta ti fa tossire per mezz'ora al massimo.
Certamente si può considerare, questa qui sopra, una puntualizzazione da poco, che alla luce di quanto narrato non dovrebbe contare niente, eppure per me resta una questione di cura venuta a mancare, ed è un peccato. Senza contare il fatto che di queste quisquilie è pieno il romanzo.
La caratterizzazione di tutti gli altri personaggi (Manfredi, Lucia, Nuccio, Il Cacciatore...) è stata piuttosto superficiale e si è eclissata in flussi di coscienza brevi e piuttosto scontati.
Mal riuscita è stata l'idea di narrare in prima persona, poi in terza, poi tornare alla prima... Non ha aiutato a delineare i contorni per realizzare un quadro della situazione.
Questa volta D'Avenia ha calcato un po' troppo la mano sulla carta, lo stile di scrittura in questo modo si è notevolmente appiattito dai tempi di "Bianca come il latte" e si è manifestato in questo suo ultimo romanzo sotto forma pallidi, sporadici guizzi di originalità.