Dettagli Recensione
Il successore dell'Orlando Furioso
Calvino riprende l'ambientazione tipica del poema cavalleresco, la stessa dell'"Orlando Furioso", collocando i suoi personaggi in Francia, all'epoca dei paladini e di Carlo Magno. Anche la struttura del romanzo è simile al poema di Ariosto: Calvino utilizza il congegno narrativo dell' entrelacement per sviluppare una trama fitta e aggrovigliata, che però vede nella parte finale del romanzo un movimento di raccordo. La scelta di riprendere il genere cavalleresco è funzionale all'analisi della condizione umana e soprattutto consente di portare a termine il processo di demistificazione dell'eroe che già era stato avviato nel '500 da Ludovico Ariosto.
Ciò che colpisce il lettore sin da subito nella lettura, è la figura di Agilulfo: si tratta di un personaggio singolare, un’armatura bianca e splendente, “una delle più ordinate e confortevoli del campo cristiano”, ma senza corpo, un cavaliere che” non c’è ma sa di esserci”, e la cui esistenza è dovuta unicamente alla propria forza di volontà. E’ un amante maniacale della perfezione e del rispetto delle regole, come si può intuire già dalle prime pagine:
“Poi si riscosse e, di gran passo, si diresse verso gli stallaggi. Giunto là, trovò che il governo dei cavalli non veniva compiuto secondo le regole, sgridò gli staffieri, inflisse punizioni ai mozzi, ispezionò tutti i turni di corvè, ridistribuì le mansioni spiegando minuziosamente a ciascuno come andavano eseguite e facendosi ripetere quel che aveva detto per vedere se aveva capito bene. E siccome ogni momento venivano a galla le negligenze nel servizio dei colleghi ufficiali paladini, li chiamava a uno a uno, sottraendoli alle dolce conversazioni oziose della sera, e contestava con discrezione ma con ferma esattezza le loro mancanze, e li obbligava uno ad andare di picchetto, uno di scolta, l’altro giù di pattuglia, e così via. Aveva sempre ragione , e i paladini non potevano sottrarsi, ma non nascondevano il loro malcontento. Agilulfo era certo un modello di soldato, ma a tutti loro era antipatico.”
Fin da subito può essere individuata l'analogia con Orlando: entrambi i personaggi esistono solo per l'adempimento delle regole e dei protocolli di cavalleria. Le conseguenze sono disastrose: da un lato la pazzia per Orlando, dall'altro la condizione di inesistenza di Agilulfo. E' evidente l'intento da parte di questi autori tanto distanti nel tempo, di criticare questo atteggiamento dogmatico e rigidamente unilaterale, contrario al pluralismo prospettico tanto auspicato da Ariosto. Ma Agilulfo allo stesso tempo, è il simbolo di una condizione umana ben più vasta, che riguarda l'uomo contemporaneo: egli è il simbolo dell'uomo robotizzato e alienato, vittima di una società di massa volta all'annullamento dell'identità dei singoli individui, che non concede agli uomini di dedicarsi al proprio mondo interiore. E' una riflessione sulla presenza dell'uomo nel mondo, su ciò che "è" e ciò che "appare": dietro la splendida armatura bianca del cavaliere Agilulfo, si cela una figura "inesistente", vuota, priva di qualsiasi valore morale e culturale, che ha perso il contatto con la parte più profonda e vera di sè, finendo per omologarsi a idee e modelli di comportamento già prestabiliti.
“Lo scorse sotto un pino ,seduto per terra, che disponeva le piccole pigne cadute al suolo secondo un disegno regolare, un triangolo isoscele, A quell’ora dell’alba , Agilulfo aveva sempre bisogno d’applicarsi a un esercizio di esattezza: contare oggetti, ordinarli in figure geometriche, risolvere problemi di aritmetica. E’ l’ora in cui le cose perdono la consistenza d’ombra che le ha accompagnate mela notte e riacquistano a poco a poco i colori, ma intanto attraversano come un limbo incerto appena sfiorate e quasi alonate dalla luce: l’ora in cui si è meno sicuri dell’esistenza del mondo. Agilulfo, lui, aveva sempre bisogno di sentirsi di fronte le cose come un muro massiccio al quale contrapporre la tensione della sua volontà, e solo così riusciva a mantenere una sicura coscienza di sé. Se invece il mondo intorno sfumava nell’incerto, nell’ambiguo, anch’egli si sentiva annegare in questa morbida penombra, anch’egli si sentiva annegare in questa morbida penombra, e non riusciva più a far affiorare dal vuoto un pensiero distinto, uno scatto di decisione, un puntiglio. Allora si metteva a contare: foglie, pietre, lance, pigne qualsiasi cosa avesse davanti. O a metterle in fila, a ordinarle in quadrati o in piramidi. L’applicarsi a queste esatte occupazioni gli permetteva di vincere il malessere, d’assorbire la scontentezza, l’inquietudine e il marasma, e di riprendere la lucidità e compostezza abituali."
Nel corso del romanzo salta immediatamente all'occhio la tendenza da parte di Agilulfo a ricercare un'ordine nella realtà, un disegno perfetto in tutto. In realtà, si tratta dell'unico modo che ha a disposizione per razionalizzare il caos che contraddistingue la sua interiorità: egli è un uomo che vive di leggi e atti burocratici senza essere capace di utilizzare una propria coscienza critica. Allo stesso tempo pero, viene tormentato tutte le notti dal pensiero di voler diventare una persona in carne ed ossa. Ancora una volta, dietro ciò che appare, ossia un cavaliere determinato e coraggioso, si cela una personalità triste, fragile, tormentata, vittima di un irreparabile dissidio interiore. Talmente fragile che, nel momento in cui si vede messo in discussione il suo titolo di cavaliere, scompare e si dissolve nel nulla. Come se Calvino volesse porre un accento sulla condizione dell'uomo moderno, che può pensare di essere qualcuno solo grazie alla funzione sociale che riveste, e una volta privato di quest’ultima, rimane “vuoto”, scompare, e nessuno lo riconosce più.
Ad Agilulfo Calvino contrappone la figura di Gurdulù, colui che “c’è ma non sa di esserci“, che si immedesima con tutto ciò che vede e tocca, in una fusione indifferenziata col tutto. Egli vive libero come un bambino, agendo senza ragione, completamente privo di pensieri e freni inibitori.
Entrambi i personaggi, pur essendo antitetetici in quanto simboleggiano rispettivamente la ragione e l'istinto, hanno un punto in comune: entrambi sono caduti vittime della società di massa, finendo per smarrire la propria identità ed essere privati della propria personalità.
Agilulfo e Gurdulù sono le componenti scisse dell’individuo moderno. Ritorna dunque il tema della scissione dell'uomo contemporaneo caro a Calvino , dell’uomo in piena crisi di certezze e privo di punti di riferimento fissi, stabili a cui aggrapparsi. E non manca l'auspicazione al raggiungimento dell'uomo totale, che riesce ad equilibrare i tratti opposti del suo carattere. Non per nulla, il terzo personaggio su cui Calvino pone l’accento è Rambaldo. Egli è un giovane ricco di ansie e incertezze, alla ricerca di sé, di un proprio posto nel mondo, che però ha il coraggio di buttarsi a capofitto nelle vicende della vita e costruire la propria personalità imparando dai propri errori. E’ dotato di grande fiducia e perseveranza, doti che si riveleranno fondamentali per conquistare la tanto amata Bradamante. Anche in questo caso, è possibile individuare un’analogia con il poema di Ariosto: Rambaldo può essere paragonato a Ruggiero, personaggio che riesce a conquistare Bradamante dopo una lunga maturazione personale. Rambaldo dunque, si può considerare come la fusione tra Gurdulù e Agilulfo. Egli è infatti un essere razionale, come Agilulfo, ma che allo stesso tempo si lascia guidare anche dal suo cuore e dalle sue emozioni, come fa Gurdulù. Il messaggio che Calvino vuole trasmetterci, è che dunque non può considerarsi completo se non riesce ad impiegare con armonia ed equilibrio tutte le sue facoltà, sia quelle legate al pensiero, sia quelle legate ai sentimenti e agli affetti.
Infine, nel romanzo vi è la denuncia alla guerra come attività inutile e vuota di significato.
"Non c'è difesa né offesa, non c'è senso di nulla, - disse Torrismondo. - La guerra durerà fino alla fine dei secoli e nessuno vincerà o perderà, resteremo fermi gli uni di fronte agli altri per sempre. E senza gli uni gli altri non sarebbero nulla e ormai sia noi che loro abbiamo dimenticato perché combattiamo... Senti queste rane? Tutto quel che facciamo ha tanto senso e tanto ordine quanto il loro gracidio, il loro saltare dall'acqua alla riva e dalla riva all'acqua..."
Ma la visione pessimista non impedisce a Calvino di concludere Il cavaliere inesistente con un’apertura di speranza e di amore verso il futuro:
"…ecco, o futuro, sono salita in sella al tuo cavallo.[…] Quali impreviste età dell’oro prepari, tu foriero di tesori pagati a caro prezzo, tu mio regno da conquistare, futuro".
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