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Di famiglie e abbandoni
Un appartamento con due stanze, un secchio per i bisogni fisici e un bagno a corridoio, un marito e una bambina: basta questo per rendere felice Matilde, alle prese con la sua nuova vita, dopo la schiera triste dei suoi ricordi d’infanzia. Qualcosa di finalmente suo, soltanto suo, le guance di mela di suo marito, la messa della domenica, DIO e sua figlia nel lettino d’ottone usato, lucidato come fosse una reliquia. Lo spazio delle piccole cose basta ad illuminare la sua vita. Eppure Matilde non sa che la realtà è un grumo d’ombra pastoso, infido, che le sordide ambizioni degli uomini congiurano intorno a lei negli anfratti d’ombra dove la sua ingenuità ha concesso loro di proliferare. Principe Myskin umilissimo, ancorato alla terra, anima pura abbagliata dall’ingenuità, anni luce dalle complicazioni della filosofia, Matilde vive nel suo cantuccio di mondo, tra le strade popolari della sua Trieste. Incapace di vedere il male, lo splendore del bene fallisce dinnanzi al gretto utilitarismo del mondo, fino al dissolversi delle relazioni umane, di famiglie disgregate e spazi d’affetto impossibili. Non il marito Bruno, non la figlia Assunta, non la vecchia padrona della casa in cui lavora come cameriera, nessuno riesce a oltrepassare le barricate dell’ipocrisia e dell’arrivismo. E così Matilde, costretta a vivere sola, con i fantasmi della sua anima, abbandonata dai suoi affetti, può solo tornare un po’ bambina e un po’ fattucchiera, a giocare con le bambole e gli spilli, l’unica crudeltà di cui la sua bontà è capace.
Racconto lungo distillato, sobrio, elegante nel suo stile popolare e sincero, Tululù è il libro postumo di Mattioni, autore da riscoprire, capace di un’arte difficile. Chi scrive sa quanto può essere frustrante condensare il pensiero, quanto la parola può essere indocile alla sintassi. Eppure qui non c’è parola di troppo, frase fuori dall'essenziale, episodio inutile. Tutto è scabro e doloroso, fragile e sincero, dolorosamente reale. Perché è nella franchezza delle cose che si manifesta la verità e non si può affrontare il male se non c’è l’idea dello stesso nella propria anima. Tululù è costruito sulla dicotomia intero-esterno, tra l’intimità della casa e lo spazio feroce del mondo, oscuro e manifesto, dove la vita è in pericolo; il fuori è lo spazio della perdizione e della rovina e non basta un abito del passato, sfiorito dal tempo, per sconfiggere la perfidia delle cose. Tululù è testo da riscoprire anche per la disanima delle voci femminili, per l’indagine sul rapporto fra le donne e l’uomo e fra le donne e gli oggetti, in un tempo, quello contemporaneo, che nonostante tutto è ancora lontano dalle sue promesse di uguaglianza.
Chiudo con una riflessione del tutto personale. Fuoco centrale del romanzo, oltre alla protagonista, è la famiglia nella sua impossibile coesione, lacerata dalle spinte centrifughe della aspirazioni individuali dei suoi componenti. In questo senso la famiglia è una forma organizzativa sull’orlo della catastrofe. E non va lontano l’autore. Sempre più spesso gli anziani in ospedale, come ho potuto osservare nei turni di tirocinio, sono lasciati soli con le loro malattie, accuditi quando va bene da badanti che parlano con i medici e che promettono di riferire ai figli. Sempre più spesso gli anziani si rifiutano di riferire sui figli per fratture insanabili e affrontano da soli il loro male, riempiendo i reparti con la loro solitudine. In questo senso, nell’epoca dell'abbandono, Tululù ammonisce sulla deriva degli affetti e sul vuoto silenzioso che accompagna le nostre vite. Perché, in fondo, restare, è la strada più difficile.
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