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IL CRISTO SVELATO
Contiene anticipazioni sul finale
Costretto a lasciare la località montana dove accompagnava profughi oltre frontiera e giunto in un paese di mare, il protagonista viene ingaggiato da un sacerdote per rimuovere il panneggio che ricopre le nudità di un Cristo crocifisso (la “natura” del titolo), sin da quando, all’indomani della prima guerra mondiale, le autorità censurarono l’intento del suo artefice di rappresentare, attraverso una leggera erezione, il senso di una vitalità umana, di “un’ultima volontà del sangue” manifestata da un giovane corpo prima di morire. Comincia un processo di immedesimazione umana e, nel contempo, di indagine teologica e religiosa, una investigazione minuziosa della statua, che mette in gioco, oltre alla vista, il tatto del restauratore: ecco la scoperta degli addominali scolpiti, delle fasce muscolari ai lati della spina dorsale, che mostrano i segni di un esercizio fisico, i muscoli in torsione delle spalle, la grinza sotto l’ultima costola prodotta da un crampo, le lettere incise in cima alla croce (“urra”, cioè svegliati, un invito che lo scultore rivolge alla divinità perché risorga), le squame che ricoprono i piedi (il pesce, da “IKTUS”, “Iesus Christos teù uios soter”, Gesù Cristo figlio di Dio salvatore, simbolo della salvezza), le tre lettere ebraiche, alef, dalet e mem, che formano il nome di Adamo, cioè la specie umana, incise sulle testate dei chiodi. L’indagine procede con la consulenza del prete e di un rabbino, ma in realtà De Luca accenna ad una sorta di attraversamento da parte del protagonista delle tre grandi religioni monoteistiche. A guidarlo e aiutarlo nella sua fatica c’è infatti anche un operaio algerino musulmano, che gli procura l’alabastrino col quale procederà al restauro e gli inculca il dovere di far risplendere la bellezza e la grandezza del divino attraverso la sua opera, con parole stranamente assonanti con quelle del suo primo e unico amore. Mentre si compie il percorso della conoscenza, avviene anche quello di un graduale affinamento interiore, che ha tra i suoi oggetti uno dei temi più cari a De Luca: quello dei profughi, degli sradicati, degli immigrati e della loro problematica accoglienza. Così il protagonista scopre di non riuscire a provare per gli esseri umani la stessa pietà, la misericordia che ha avvertito di fronte alla sofferenza umana della statua, e si rammarica di non aver saputo comprendere il piccolo profugo che sulla banchina del porto gli aveva gridato: “Dusseldorf”, la città in cui avrebbe voluto raggiungere i suoi genitori. Ma è nelle parole pronunciate dall’operaio arabo il punto più toccante di questa ricerca artistica, umana e, in senso lato, politica. Le riportiamo per la loro bellezza e attualità. “Ho imparato da voi a essere nessuno. Tengo gli occhi bassi e questo mi fa scomparire, li alzo e appaio di nuovo. Sto zitto e sono accolto, parlo per chiedere un’informazione e sono respinto. Preferite nessuno. Va bene, facciamo che non esistiamo uno per l’altro. Tu no, ti siedi, racconti, domandi. Tu sei qualcuno e fai diventare qualcuno anche me.” (p.97).
E’ qui il senso religioso dell’autore, una religiosità orizzontale e senza trascendenza, non accolta in sé ma riconosciuta negli altri (“Personalmente escludo l’intervento divino dalla mia esperienza, non da quella degli altri”, p.9), una misericordia per l’uomo provata per la prima volta davanti ad una statua sentita e accudita come un essere umano, fino al gesto simbolico di riscaldarle i piedi di marmo. Un senso del sacro di cui si accorgono i suoi committenti, il prete e il vescovo, che lo preferiscono ai tanti che avevano mostrato un interesse solo venale e materiale per l’incarico. Siamo al finale. L’alter ego del restauratore, la voce del fratello morto prematuramente che si risveglia nei momenti cruciali, interviene dinanzi alla sua difficoltà a riattaccare il membro al corpo del Cristo e a completare l’opera. Gli spiega che in lui si è insinuato l'orgoglio, che gli sta venendo meno l’umiltà dovuta, recuperata la quale tutto si compirà e il corpo stesso sembrerà attrarre come una calamita il pezzo mancante: “Applico la resina alle due superfici di contatto. Avvicino la natura alla sua congiunzione. Non controllo il tremito delle mani, temo di attaccare male, di essere impreciso. Le due parti si attraggono da sole. Accosto. Unisco. Fine” (p.123).
C’è un altro filone nel racconto (la scrittura di De Luca è densissima): quello della donna che attira il protagonista in una fosca trama di gelosia e vendetta, mettendo a repentaglio la sua vita. Ma è come un corpo estraneo che stenta a fondersi col resto della storia. Deve essere un luogo ricorrente nell’immaginario e nella coscienza dell’autore. Un intreccio simile caratterizzava il legame tra lo “Smilzo” di Il giorno prima della felicità e la giovane Anna. Un topos latente che periodicamente riaffiora.