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Fai piano quando torni
 
Fai piano quando torni 2018-05-23 08:33:40 Mian88
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
Mian88 Opinione inserita da Mian88    23 Mag, 2018
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Il lungo cammino per la rinascita.

Sono già quasi tre mesi che è ricoverata a seguito dell’incidente stradale e tutti, medici, amici, parenti, si chiedono come faccia ad essere ancora viva. Il suo nome è Margherita, trentaquattrenne della Bologna bene, avvocato e di buona famiglia già dalla nascita. È segnata la protagonista da un doppio trauma: la morte del padre occorsa otto anni prima e l’essere stata abbandonata da Francesco, ex fidanzato riaccasato, con cui ha convissuto per quattro lustri. Da qui il pensiero che possa aver tentato il suicidio sfiora la mente di chi le sta intorno. Eppure Margi non aveva alcuna intenzione di morire, anche se ha vissuto in uno stato di apatia, anaffettività, metallicità, anche se ha vissuto priva di stimoli per cui andare avanti per un tempo indeterminato come se fosse stata avvolta da un bolla ovattata a cui era vietato l’accesso ai non autorizzati, è successo davvero per caso. Poi un giorno come altro in quella stanza di ospedale, si accorge di una vecchietta, Anna, Annuccia per il suo Nicola, una sfoglina che si è rotta il femore e che dispensa chiacchiere e consigli per quella che diventerà la sua bambina, durante la degenza e dopo la stessa. Perché la signora Anna è una di quelle persone indistruttibili ma “non perché ha scelto solo s stessa, o perché non sente. Perché è viva. Dice di sì e mai di no. Si avvicina e non si allontana. Non cerca una giustificazione della sua esistenza se non nei minuti della sua vita. Non guarda gli altri per vedere nelle loro mancanze le sue vittorie. È solo questo. Le piace vivere. Mangia, ama, fuma.” P. 72
Ed è grazie a questo suo essere che Margherita, quasi senza rendersene conto, inizierà il suo percorso di cura dell’anima. Perché le sue ferite non soltanto quelle causate dall’incidente ma primariamente quelle che le fanno sanguinare lo spirito. Conoscerà l’amore, quello vero, un amore che ha resistito al tempo, alla lontananza, agli anni che passano, al doversi separare e all’andare avanti con quella speranza di potersi, un giorno, chissà quando, rincontrare. Perché Annuccia al suo Nicola bello in divisa non se lo è scordato mai. E in questo vortice di nuove scoperte, si renderà conto che forse, quello che credeva amore, tale non era.
Silvia Truzzi, giornalista presso “Il fatto quotidiano”, approda in libreria con un romanzo forte, intenso, atto ad esorcizzare un doppio dolore accomunato dalla matrice dell’abbandono. E vi riesce con grande maestria. Il suo è uno scritto volto a vincere questo senso di vuoto che è lasciato da chi, per una circostanza o per un’altra, ci lascia. È un elaborato in cui il lettore sogna, riflette, medita ed affronta il suo stesso dolore.
Il tutto accade con una penna lieve, fluente, che prende per mano e accompagna l’avventuriero passo dopo passo. Senza mai esagerare, senza mai andare fuori riga. Ogni tassello è finalizzato a comporre e costruire un puzzle più grande di rinascita ma anche di comprensione di noi stessi. Perché l’autrice ci invita a fare anche questo: a conoscerci e a riscoprirci.
E a questo contenuto forte, a questa penna che solletica l’anima si sommano due personaggi profondi, tangibili e concreti che non si può far a meno di amare. Per i loro pregi, per i loro difetti, per la loro umanità. Da leggere.

“«No bambina, tuo papà non è qui. Tuo papà è qui.» E fece un patetico segno indicando vagamente il cuore.
«Senta signora Anna: è mio papà e decido io dov’è»
«Se non capisci niente non è colpa mia. Io te l’ho detto e vedrai che mi darai ragione»” p. 170

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