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Le poche cose certe
 
Le poche cose certe 2018-04-12 19:30:14 Flavia Buldrini
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Flavia Buldrini Opinione inserita da Flavia Buldrini    12 Aprile, 2018
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"Tra un'isola e l'altra c'è sempre il mare"

Questo suggestivo romanzo racconta il faticoso passaggio dalla stagione inquieta e incompleta della giovinezza a quella della maturità e della pienezza della condizione adulta, espresso metaforicamente attraverso il passaggio da un’isola, quella di Arturo, il protagonista, che evoca l’omonimo del capolavoro della Morante - la cui partenza definitiva da Procida segnerà l’abbandono del mondo incantato della fanciullezza – a quella di Atlantide, che è come una magione fatata in cui dimora la beatitudine perfetta, quale iridescente miraggio che balena attraverso una figura femminile incrociata una sola volta e ossessivamente vagheggiata come l’ambita mèta di tutte le aspirazioni e della sua realizzazione armoniosa di uomo. “Che se c’è una cosa certa, nella vita, è che fra un’isola e l’altra c’è sempre il mare”: con la sua altalena indomita di bonaccia e tempesta, in balìa dei flutti dei capricci, delle passioni, dei timori, delle fisime, dei vizi incorreggibili, della voluttà di morte che assale. E su questo sfondo si staglia il dramma di Arturo: “Arturo si era convinto di potere una vita speciale, ma poi non muoveva passi, verso l’ignoto, per paura di una vita vera. Il risultato era una vita fasulla, come quella delle formiche rimaste inoperose. Arturo era un divano rimasto con la plastica addosso, messo in quelle stanze in cui non si entra per paura di sporcare, e di rovinare. Che certe vite, poi, invecchiano così: senza mai essere state usate.” L’intero tessuto narrativo si giostra nella spola tra “andata” e “ritorno”, in cui, a segnare lo spartiacque, è proprio il mito di Atlantide, incarnato in quella ragazza magnetica che, fin dal primo sguardo, sembra intuire tutto di lui e metterlo a nudo di fronte alla verità: per esempio, che fare l’attore non è il suo mestiere - e infatti, di lì a poco lo lascerà per il lavoro più stabile e rassicurante del calzolaio – e che, piuttosto di passare da una banale avventura all’altra, sarebbe ora che cercasse una solida compagna di vita. Allora, l’andata è caratterizzata da questa ricerca affannosa di lei che un bizzarro scherzo del destino – il tram guasto e il telefonino scarico – non gli farà incontrare, probabilmente perché non si sentiva ancora pronto ad abbracciare il cambiamento e le paure diventavano ostacoli insormontabili, ributtandolo, così, in mezzo ai marosi dei conflitti interiori irrisolti, alla sua prostrante inadeguatezza, fino a rasentare la morte, quella sera stessa del mancato appuntamento con la sua felicità, trovando rifugio nella droga, “a un passo dal coraggio; a un passo da un tentativo nuovo che non vuoi fallire, ma che non sai fare. A un passo da Atlantide, che se allunghi una mano ti pare quasi di poterla accarezzare. I dottori non lo sapevano mica, il male che fa una cosa bella, quando sembra così vicina, e invece è lontanissima. Come Capri, vista da Procida, quando sta per piovere. Come Atlantide, ammesso che non l’abbia solo immaginata.” È una travagliata lotta con se stesso, “inetto, pauroso, ingrato nei confronti di una vita che lo aspettava, mentre lui appositamente ritardava”, il quale non trova pace, impigliandosi in fugaci relazioni con innumerevoli donne, senza amarne nessuna, a parte Celeste - di cui si accorge troppo tardi, però, quando ormai la rottura è irrimediabile -, oltre all’immaginifico fantasma di Atlantide. In realtà, alla fine questa icona femminile si svelerà essere quale donna schermo, come nello Stilnovo dantesco, vale a dire che tutta quell’aura di idealizzazione che l’avvolgeva finirà per dileguare, lasciando posto alla sana concretezza di una ragazza, Alessandra, con cui vive due notti d’amore e che, paradossalmente, proprio in una circostanza così casuale, le darà un figlio: “Non era tanto la morte mancata per un soffio, quanto la tragedia della vita aspettata che non combacia mai con quella reale. Arturo, per esempio, aveva fatto di Atlantide un posto immaginario: perfetto per approdare, perfetto per scappare.” Il ritorno, dunque, si profilerà, dopo dieci anni di turbolenza e inadempienza di sé, in un viaggio sullo stesso tram, che lo porterà, stavolta, verso la A. di Alessandra, per sapere se è lui il padre di quel bambino che non voleva e di cui pure, vedendolo una sola volta, pensando al suo personale rapporto con la figura paterna, non potrà fare a meno di innamorarsi perdutamente. In questo modo, quasi a forza e all’improvviso, giunge al suo approdo, alla sua Itaca - ovvero Procida, che è l’isola felice dove idealmente è stato concepito da sua madre quando doveva decidere se sposarsi, legata ai ricordi più belli di una serena affettività -, dove si assume le proprie responsabilità e si acquieta nel modus vivendi che il destino gli ha assegnato, diventando finalmente adulto. La lezione, quindi, che Valentina Farinaccio ci consegna, attraverso un geniale gioco ad incastri - che alimenta abilmente la suspence - ed uno stile fluido ed accattivante, è che “le poche cose certe” sono che la vita ti sorprende sempre e sbaraglia tutte le pianificazioni e fantasticherie con il suo impeto selvaggio che annega le vane chimere per depositarti sulla nuda riva della realtà, in tutta la sua incandescente scabrosità: “Atlantide annegò. Accadde quando i suoi abitanti trasformarono la quiete in guerra e la bellezza in orrore. Se la mangiò il mare, e dell’isola rimasero solo tracce presunte, storie immaginate, nessuna certezza, nessuna geografia. Perché la bellezza finisce, e sfinisce, e Arturo era rimasto a guardarla da lontano, pauroso, come si fa con gli animali, durante un safari.”





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