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La maledizione calabrese
Gioacchino Criaco è nato ad Africo, in Calabria. E’ autore di Anime Nere, Zefira, Il salto zoppo. Ora pubblica La maligredi: un romanzo duro, forte, epico e molto tragico. Di non facile lettura, “la maligredi” è:
“la brama del lupo quando entra in un recinto, e, invece di mangiarsi la pecora che gli basta per sfamarsi, le scanna tutte. Quando arriva, la maligredi spacca i paesi, le famiglie, fa dei fratelli tanti Caini e avvelena il sangue fino alla settima generazione. E’ peggio del terremoto, e le case che atterra non c’è mastro buono che sa ricostruirle. A un torto si risponde con la giustizia, che se si lascia sfogare la vendetta diventiamo lupi di noi stessi e ci mettiamo in casa la maledizione.” .
La maligredi è una specie di maledizione, che aleggia per tutta la narrazione, che impedisce al paese dell’Aspromonte, Africo, di evolversi e di mutare le proprie condizioni di vita. Siamo nel 1951, dopo l’alluvione, gli africoti vengono spostati dal loro paese in una zona marina. Il mondo dipinto è povero, si nutre dei presunti miracoli dei santi protettori, delle processioni a San Sebastiano, le case sono rughe,
“Le rughe erano fatte ognuna da due caseggiati che disegnavano due ferri di cavallo però quadrati, piedi contro piedi: sedici alloggi per sedici famiglie, fossero composte di una persona o di dieci- ogni alloggio aveva due stanze, un cucinotto, un bagno. Se non faceva vento, le strade delle rughe avevano l’odore del sugo finto che galleggiava davanti alle case- che le mamme sarebbe stato meglio si fossero decise a farla in bianco la pasta, ammettendo che non c’era la possibilità del condimento.”.
Qualche segnale di boom economico si intravede: il frigorifero, la cucina a gas, la tv è rara; ma l’economia è da medioevo: con gli gnuri, i proprietari di terra, a vessare e a schiavizzare. Lo stato è qualcosa di altro, non esiste, non è ostile, ma nullo. Ci sono i “malandrini” che sono degni di rispetto, perché “dritti”:
“Eh, i malandrini di oggi sono intelligenti e con un pelo nello stomaco che fa paura. Non che i malandrini di una volta fossero più buoni, solo più ignoranti. (…) E mica c’era bisogno di soldi, quelli erano così cioti che si sarebbero fatti convincere a portare a casa una bomba atomica, se qualche possidente da cui erano a servizio gli avesse detto che faceva bene ai reumatismi.”.
E’ in questo clima che vive Nicola, con i suoi amici Filippo e Antonio. Nicola, due sorelle e una madre che:
“una mamma di gelsomino. Io lo so, le madri calabresi non hanno colpe, a volte i figli vengono sbagliati, nonostante il profumo di gelsomino”.
Il padre è emigrato in Germania:
“Tanto mio padre non c’era, era in Germania adesso, come buona parte dei padri e dei fratelli grandi del paese. Lui faceva le macchine a Wolfsburg”.
Lui, con i suoi amici, sono molto ben integrati, e vivono le loro avventure infantili e della prima adolescenza. E’ agevole superare le difficoltà della vita con soldi facili, piccoli favori qua e là, come nascondere per una settimana una sacca con due armi e un passamontagna, il cui uso neasto è indicibile. Ma Nicola conosce presto anche il lavoro e il sudore della fronte e il suo necessario guadagno, e con Papula inizia a sognare un mondo rivoluzionario:
“La rivoluzione è cambiare tutto quello che non ci piace, fare le cose che non possiamo fare, avere diritti senza passare da un compare. La rivoluzione è non prendere le mazzate dai carabinieri solo perché così gira al maresciallo…..”.
Qui si lumeggia una pagina poco nota: un sessantotto aspro montano animato, appunto, da Papula che porta idee pericolose e sogna di cambiare il Sud. Predica la speranza di fondare un mondo nuovo e di ottenere diritti, fa capire ai poveri che hanno bocca e idee, dissemina la buona novella della rivolta tra i giovani e le donne, trasforma San Luca nel cuore pulsante della protesta operaia. La sconfitta è traumatica, dalla quale non si torna indietro.
Romanzo corale, tinto di un realismo magico, dove le donne calabresi sono madri che odorano di gelsomino, e sono metafora di eroismo, poiché:
“solo chi c’è stato, nella pancia del popolo calabrese, può saperlo che ci abbiamo provato a essere migliori.”.
I personaggi sono indimenticabili ( da Papula a Cata a papa all’ex maresciallo Giannino), l’elaborato è scritto con sobria quanto mai realistica fermezza, la narrazione è profonda e di fascino indiscutibile per il lettore. L’affresco di una Calabria epica e lirica, che dal passato difficile fa conoscenza per un presente, in cui si supera la “scordanza”, e si sopravvive, sormontando ambiguità e contraddizioni.