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Sulle orme dell'amata
Questo libro è una quête struggente quanto lucidamente raziocinante dell’autore sulle orme dell’amata, madre dei suoi tre figli, prematuramente scomparsa in seguito ad una grave malattia. Il giornalista Yari Selvetella, come un ‘segugio’, speculare di quel “cane pastore” che difende la propria famiglia in cui volentieri più volte s’identifica, ‘fiuta’ ogni minima traccia di lei, nei luoghi più frequentati della memoria, in quelli abitati in cui ha lasciato il segno, avventurandosi in un labirinto interiore che trova fisicamente espressione nell’ospedale, nei suoi fitti meandri in cui l’ha persa e in cui si sta smarrendo anch’egli, rischiando di non ritrovare il filo di Arianna, il bandolo della matassa per evadere dalla prigione di una vita incatenata alla sua assenza. L’architettura di questo romanzo autobiografico è improntata all’allegoria, alla galleria di ‘stanze dell’addio’, appunto, di cui si varca la soglia man mano che questo percorso spirituale volto al superamento del trauma progredisce: dalla realistica presa di coscienza di quanto è accaduto, aggirando i tentativi di rimozione o l’edulcorata consolazione dell’illusione, alla graduale elaborazione del lutto, tra tenere reminiscenze che affiorano sulla scia di una sensazione o di un sapore - un po’ come la madeleine di Proust – e i blocchi di iceberg nelle distese gelate di un dolore sommerso, fino alla rivalsa della vita sulla morte con il successo professionale e una nuova creatura che nasce, rivendicando il proprio ‘sacrosanto’ “diritto ad amare.” Gli stessi protagonisti sono allegorici: di nessuno di essi - neanche della stessa donna o dei figli - viene evocato il nome, quasi a lasciarli fluttuare nella loro libera quintessenza che rimanda a qualcosa di troppo ineffabile e sfuggente per essere sclerotizzato in una definizione. Alcuni, poi, hanno precipuamente una funzione allegorica, come i personaggi chiave de “l’uomo coi baffi” e del “ragazzo del bar”, una sorta di guide dantesche quali Virgilio o Beatrice che iniziano al viaggio nel tortuoso dedalo esistenziale, in cerca di una via d’uscita: il primo, mostrando, con la sua caricatura di una parvenza vitale inchiodata alla perdita della moglie, l’assoluta improrogabilità di reagire per non restare invischiati nella bava dei rimpianti e dei rimorsi che paralizza la vita; il secondo, invece, indicando la necessità di abbandonare l’irresolutezza giovanile per abbracciare una matura determinazione. Anche i luoghi assumono connotati metaforici, come le stanze che custodiscono la memoria dell’amata nei diversi trascorsi e che allo stesso tempo inducono a trascenderla, quali anelli ad incastri e, ciò che è l’archetipo dominante cui viene affidata la conclusione del romanzo, l’onnipresente mito del mare che sembra cullare l’intera vicissitudine, i protagonisti, le idee, i sentimenti, i ricordi, trovando compimento all’ombra dell’icona del Moby Dick, a suggerire il mistero del proprio destino.
Yari Selvetella adotta uno stile moderno, di notevole arguzia e fluidità intellettuale, che spazia dal flusso di coscienza di Joyce al surrealismo di matrice kafkiana, tra continui flashback che sovrappongono un piano temporale all’altro, per cui, come all’autore, così pure al lettore sembra di essere sulla nave, in balìa delle onde, ciò che è il punto di osservazione privilegiato per affacciarsi sull’ignoto: “Il mare è una grande mente e penso che potrei esplorala davvero molto a lungo (…) È la nave stessa, ho pensato, che rende il mare liquido, lo apre, lo tritura nel motore e lascia alle nostre spalle un tumulto d’acque. (…) Siamo noi, è la nave, che modifica tutto, che droga gli organi, che inquina, ma a stretto contatto con un altro tempo. (…) Lo sfiato di un cetaceo celebra il suo dominio sull’elemento. Il capodoglio spruzza. (…) Spunterà di nuovo, un grande saluto con la pinna caudale che sbatte, sulla superficie dell’acqua? Si può solo cacciare o adorare un simile animale. Invece no, non l’ho più visto e come sempre accade in queste storie da quando ti ho conosciuto, non so più se quello che ho così intensamente vissuto è poi veramente successo.”