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MONTAGNA MAESTRA DI SOLITUDINE
Da amante della montagna quale sono confesso di avere avuto qualche iniziale titubanza a prendere in mano il libro di Paolo Cognetti, temendo di vedere inesorabilmente deluse le mie alte aspettative. Invece la fatica e l’euforia delle salite, la ruvida umanità dei montanari, le vette apparentemente inaccessibili e i laghetti alpini su cui esse si specchiano, i canaloni e le pietraie, i suoni dei campanacci delle mucche nei pascoli e lo scrosciare dei torrenti che scendono dai ghiacciai, i colori dei tarassachi, dei larici e degli abeti, gli odori del letame e del formaggio di malga, e ancora il silenzio, le nebbie che avvolgono le cime, la prima neve di fine estate, le sommesse conversazioni serali nei rifugi, tutte queste sensazioni ed emozioni, che mi hanno fatto compagnia in decine di anni di frequentazione delle alte quote, le ho ritrovate tutte, con fedeltà impressionante, nelle pagine de Le otto montagne. E soprattutto ho ritrovato quella montagna “maestra di solitudine”, che porta i due protagonisti Pietro e Bruno a rifugiarsi spesso nella sua dura, ostile ma confortevole intimità, per isolarsi dal resto del mondo e ritrovare se stessi.
Si vede che il libro si nutre di autobiografia, che è un abito tagliato su misura delle passioni e delle conoscenze di Cognetti (l'unica riserva che mi sento di fargli è infatti che gioca un po', se così si può dire, “in casa”, e sarei curioso, non avendo letto nient'altro di lui, di vedere come se la cava “in trasferta”, magari alle prese con un romanzo metropolitano), e non si fatica a credere, come ha affermato l'autore stesso in un'intervista, che esso sia stato scritto quasi di getto, con inusuale velocità. La scrittura è infatti semplice, scorrevole, e la struttura del libro, di agevolissima lettura, è altrettanto essenziale, in quanto non esita a lasciare sullo sfondo l’attualità e la vita invernale in città per concentrarsi sui ritorni di Pietro in montagna, dove ritrova sempre il suo amico d’infanzia Bruno, figlio di montanari e montanaro a sua volta per vocazione. Nei due personaggi (che alla lontana mi hanno ricordato Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse) si incarna la parabola che dà il titolo al romanzo, la possibilità cioè di vivere conoscendo tutte le otto montagne che i buddisti nepalesi ritengono ci siano intorno al mondo (come Pietro, che si allontana frequentemente dalle Alpi per vivere ad esempio alcune stagioni ai piedi dell'Himalaya) o in alternativa di salire sull’unico monte che sta al centro di esso (come Bruno, solitario custode del Grenon). La montagna per Cognetti non è solo una mera scenografia, lo sfondo in cui viene ambientata la storia, ma è anche fonte di bellissime, acute metafore. Prendiamo ad esempio questo bellissimo passaggio. “L’estate cancella i ricordi proprio come scioglie la neve, ma il ghiacciaio è la neve degli inverni lontani, è un ricordo d’inverno che non vuole essere dimenticato.” A me, per esempio, ha fatto pensare a come lo scioglimento dei ghiacciai delle Alpi vada di pari passo con l’oblio della memoria collettiva e del passato storico che caratterizza tristemente, nell’era di internet, una gran parte delle giovani generazioni. Le otto montagne non è quindi un libro che vive sotto una campana di vetro, ma ci dice più cose sul mondo e sulla vita di quello che sembrerebbe a prima vista.
In questa asciutta e pudica storia di amicizia e di paternità, raccontata senza toni edulcorati (al contrario non esitando a mettere in primo piano sentimenti come il rimpianto per le occasioni perdute, la tristezza per chi non c'è più o la difficoltà di trovare il proprio posto nella vita), vi sono brani di struggente bellezza, come quando Pietro, cercando di recuperare in extremis un rapporto col padre defunto, va alla ricerca delle scritte da questi lasciate negli anni passati sui libri di vetta; oppure quando il protagonista, scendendo a valle alla fine dell’estate, immagina di vedere se stesso bambino mentre sale verso gli alpeggi insieme al suo giovane genitore. Una simile dichiarazione di elegiaco amore per la montagna mi fa tornare in mente le parole che Renè Daumal scrisse ne Il Monte Analogo: “Non si può restare sempre sulle vette, bisogna ridiscendere… A che pro allora? Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto. Salendo devi prendere sempre nota delle difficoltà del tuo cammino; finché sali puoi vederle. Nella discesa, non le vedrai più, ma saprai che ci sono, se le avrai osservate bene”. Da consigliare caldamente a tutti coloro che amano la montagna, a quelli che la ammirano senza ancora avere avuto la possibilità di conoscerla a fondo, e ancora di più a chi, non potendoci più tornare, prova la straziante nostalgia delle vette, dei rifugi e dei ghiacciai.
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