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La "morale del crimine".
Alessandro Zaccuri pubblica con Marsilio Lo spregio.
Anni Novanta: tra i monti, al confine con la Svizzera, si snoda una vicenda brutale, secca, spedita che pare ricordare la struttura della tragedia greca della quale manca solo il coro. Vengono richiamate le radici che sottintendono i conflitti del teatro greco: l’ereditarietà della colpa, l’ineluttabilità del fato. Il Moro (Franco Nerelli) ha ereditato dal padre la Trattoria dell’Angelo, ma i suoi guadagni provengono da traffici loschi con le prostitute e il contrabbando. Con la moglie, una donna insipida, timida e servile, ha allevato un trovatello, Angelo, che quando diviene consapevole delle proprie origini, anziché distanziarsi dal padre, desidera emularlo. Angelo si lega a Salvo, figlio di una famiglia meridionale in soggiorno obbligato, dopo una parentesi amichevole vuole superare in fama e in reputazione il suo amico. Lo “spregio” avrà terribili conseguenze. Il Lucifero della copertina sigla l’atmosfera incupita del romanzo. Storia di competizione, di sangue, di passioni violenti e virili dove la lotta è feroce sia tra padri e figli, sia tra fratelli. Si tratta di forme arcaiche e superstiziose anche nell’espressione della religiosità popolare. Emergono con forza la crudeltà e l’assurdità della cultura mafiosa in stile asciutto, tagliente, si direbbe ossuto. Quel ragazzetto che crescendo aveva cercato nei propri lineamenti una traccia evidente di quelli paterni senza poterla trovare, si era illuso che almeno gli occhi, grigi e trasparenti fossero quelli del Moro.. La rivelazione crudele della sua nascita avviene a scuola, consapevole del losco cammino del padre anziché disprezzarlo vuole incarnare il modello e superarlo. L’ambiguità inquietante prima, la vendetta mafiosa dopo, la “morale del crimine”, percorrono un romanzo che bene si presta a letture psicanalitiche e sociologiche, opera di un giornalista che conosce i tempi e i ritmi della narrazione.