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Il deserto dei tartari
 
Il deserto dei tartari 2017-11-11 21:39:42 Laura V.
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    11 Novembre, 2017
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L’irreparabile fuga del tempo

Per ogni libro esiste un particolare periodo della propria vita.
Credo di aver letto questo romanzo di Dino Buzzati al momento giusto: non sono ancora così avanti negli anni, ma mi ritrovo comunque a un’età in cui è naturale fare un bilancio esistenziale e, pertanto, rivolgere più di un pensiero agli anni lasciati alle spalle; insomma, tutti cerchiamo di fare i conti con la vita e col tempo che passa, anzitutto per poter andare avanti. Ecco perché, fin dal principio, sono stata affascinata da “Il deserto dei Tartari”, che se avessi letto a quindici anni, probabilmente, non mi avrebbe coinvolta allo stesso modo né l’avrei potuto comprendere appieno.
È infatti il tempo il grande protagonista di questa storia tanto semplice quanto spiazzante. Né l’ufficiale Giovanni Drogo, consacratosi in toto alla carriera militare, né la Fortezza Bastiani, estremo baluardo di frontiera. No, soltanto il tempo, con il suo lento ma inarrestabile incedere, la sua fuga appunto irreparabile, i suoi silenzi che, indifferenti, si mescolano ad altri vasti silenzi solcati dalla voce del vento e dai sussurri notturni ammantati di stelle, così come essi si confondono col greve pallore della neve e col rosso vivo dei tramonti sempre uguali, con i palpiti di vita a primavera che lusingano gli animi facendo loro nuove e ingannatrici promesse. Quella di Drogo esemplifica al meglio la vicenda umana in generale: aggrappati a un presentimento più o meno vago di cose grandi, si aspetta la vita. Ma la vita, in verità, non aspetta e così il dolce sapore dei sogni e delle speranze si tramuta presto in quello amarissimo delle illusioni.

“Il tempo intanto correva, il suo battito silenzioso scandisce sempre più precipitoso la vita, non ci si può fermare neanche un attimo, neppure per un'occhiata indietro. "Ferma, ferma!" si vorrebbe gridare, ma si capisce ch'è inutile. Tutto quanto fugge via, gli uomini, le stagioni, le nubi; e non serve aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita stanche si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume, che pare lento ma non si ferma mai.”

Magnifico e portentoso romanzo, la cui narrazione, non estranea, a mio parere, a sfumature kafkiane, è calata in una perfetta dimensione spazio-temporale fantastica e indefinita.
Scrittura semplice e incisiva, per nulla prolissa, decisamente diversa rispetto a quella che si ritrova tra le pagine di “Un amore".
Un messaggio, quello lanciato dall’autore, che forse, alla luce di certi suoi passaggi, non è poi di assoluto pessimismo: se è vero che alla fuga del tempo non ci è possibile resistere, è però anche vero che questo stesso tempo, intanto che fugge, possiamo riempirlo di piccole grandi soddisfazioni quotidiane, senza ostinarci nella frustrante e inutile ricerca di successo e gloria a vario titolo; e, soprattutto, di affetti, amicizia e amore, affinché la nostra esistenza non diventi una landa arida e desolata come quella sconfinata del deserto dei Tartari.

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