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Ci sono cose che si sanno e basta, e le prove sono
Anni ’50, Soreni, Sardegna. Maria Listru, figlia di Anna Teresa Listru, è una fill’e anima. Quarta e ultima nata, viene adottata da Tzia Bonaria Urrai, nubile benestante e sarta di facciata. Sono i lustri in cui nell’entroterra sardo è diffusa la pratica del “fillus de anima” ovvero di quell’accordo ingenerato tra privati per cui si manifesta l’affidamento volontario e consensuale di un figlio da parte dei genitori a terze persone. La piccola si ritrova così in una nuova casa, con nuove regole perché quelle della madre adottiva sono legge di Dio e come tali vanno rispettate, e con uno spazio tutto per sé. L’anziana, resasi conto delle condizioni economiche e affettive in cui la giovane è vissuta, inizia un vero e proprio lavoro di ricostruzione, un lavoro atto a creare prima di tutto un rapporto di amore, di rispetto e di famiglia.
E quello che si instaura tra le due, è un legame fortissimo. Bonaria dona alla bambina istruzione, saggezza, intelligenza, severità, affetto e generosità, tanto che questa ha tutti gli strumenti per crescere sana e responsabile, ha tutti gli strumenti per crescere nella consapevolezza che alcune cose possono essere fatte, mentre altre, no. Questi concetti, purtroppo, non sempre e non necessariamente coincidono con l’idea filosofica del giusto e dello sbagliato.
Ma l’opera non si esaurisce con quanto sino ad ora esposto. Attorno alla figura di Bonaria si cela il mistero, il segreto. E’ oggetto e destinataria di domande, domande alle quali non può essere data risposta, domande, ancora, che semplicemente non possono essere poste. Maria si impegna a mantenere il silenzio, a domare la curiosità. Non sa spiegarsi il perché di quelle improvvise uscite notturne, ma sa anche che l’anziana è stata categorica in merito. Quando scoprirà quel che davvero si cela dietro la sua figura, quel che queste sortite notturne hanno ad oggetto, resterà destabilizzata e si staccherà da quel ventre materno che l’ha tirata sù per ritornarvi soltanto dopo aver maturato, soltanto quando alcuna parola è più necessaria perché ogni silenzio vale più di ogni verbo espresso.
Caratterizzato da un linguaggio curato, fluente, quasi magico, uno stile narrativo capace di far rivivere le tradizioni, le superstizioni e le credenze della cultura sarda, “Accabadora” è un romanzo che si auto conclude in appena una giornata ma che lascia il segno. L’intero suo scorrimento è caratterizzato da quell’alone del mito, della fiaba mixato alla trattazione di argomenti attuali ed infine, alla dimensione eterna. Quest’ultima è quella che parla dell’orgoglio, dei doveri di una figlia verso la madre e della madre verso la figlia, della vita, del significato che le attribuiamo, di quando questa perde quei connotati che siamo soliti riconoscere quali elementi giustificativi di dignità e di vivere.
«Perché Arrafiei era andato sulla neve del Piave con scarpe leggere che non servivano, e tu invece devi essere pronta. Italia o non Italia, tu dalle guerre devi tornare, figlia mia»
«Ci sono cose che si sanno e basta, e le prove sono solo conferma»
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