Dettagli Recensione
Il mestiere di vivere
Fosse solo il ritratto di un fondamentale passaggio nella storia sociale italiana, staremmo parlando comunque di un signor libro. Discorso che si può riproporre pari pari se non si trattasse altro che della rappresentazione di un uomo che vorrebbe porsi fuori dal coro e combattere contro la società così com’è strutturata, ma ha anche un estremo bisogno di farsi accettare dallo stesso mondo che dice di rifiutare. Ma il terzo romanzo del grossetano Bianciardi non si limita a intrecciare i due temi sopra esposti con smaliziata abilità, bensì li racconta con una lingua brillante, a volte addirittura travolgente, in cui le trovate lessicali si mischiano alle derivazioni dai dialetti inanellando passaggi funambolici e mantenendo un ritmo infallibile e costante che coinvolge il lettore fino a immergerlo in un momento storico che pure non ha vissuto. La figura centrale, che narra in prima persona, ha lascia la provincia - oltre alla moglie e al figlioletto - per andare a vivere a Milano con l'intento iniziale di vendicare i minatori morti in un incidente causato dalla scarsa sicurezza sul lavoro (il riferimento è alla miniera di Ribolla, 1954): l’aspirazione sarebbe di far saltare il ‘torracchione’ in cui ha sede l’impresa mineraria, ma bisogna sbarcare il lunario e quindi ecco l’impiego di traduttore come fonte di sostentamento dopo che è saltato il posto come redattore di un piccolo periodico. Se tutto attorno sta partendo il cosiddetto miracolo economico, la vita smette di essere difficile: camere ammobiliate senza riscaldamento da condividere con casuali compagni di viaggio (l’ingombrante Carlone, i giocatori di pelota) e pranzi in latterie economiche facendo con cura il conto dei soldi. In questa sorta di boheme della periferia milanese giunge infine Anna, con la quale il protagonista intreccia un’appassionata storia d’amore spingendosi a fare il salto che lo porta all’affitto di un appartamentino: l’inizio di un’esistenza di routine, contrassegnata sempre da un’obbligata e spasmodica attenzione alle spese, che finisce per impoverire persino la passione. Si tratta di quella stessa routine criticata negli altri, gli operai descritti nell’apocalittica rappresentazione dei ‘treni del sonno’ e gli impiegati incarnati nelle segretarie inacidite: feroce la descrizione delle camminate sui tacchi che fanno sussultare le gote anziché il petto che le donne del nord non hanno. Del resto, l’iroso narratore, dietro il quale si scorge con chiarezza l’autore, ne ha per tutti: i padroni e tutto il meschino ambiente lavorativo (la tragicomica revisione delle traduzioni), il partito e/o il sindacato (l’attività di sezione predicata da una piccola borghese), il dominio assoluto dei dané con il corollario di bollette da pagare e creditori asfissianti, il traffico ossessivo che è una minaccia anche solo se si attraversa la strada per un caffè, il consumismo nascente con l’acquisto di prodotti inutili sotto i neon del supermercato, i nuovi miti di una società massificata come la televisione o l’auto di proprietà o ancora la villeggiatura ai quali non resta che contrapporre un disperato ‘io mi oppongo’. Di conseguenza, ecco il vagheggiato ritorno a un mondo semplice e rurale basato sul libero amore e il baratto, ma l’impressione che non si tratti altro che di parole cresce con il passare dei capitoli laddove, tra una filippica e la successiva, la voce narrante si arrabatta con i problemi quotidiani senza mai dare concretezza ai suoi proposità di velleitaria ribellione. Il volume si mantiene così su di un doppio binario: da una parte c’è il racconto della brusca trasformazione sociale che è all’origine del nostro quotidiano, dall’altra l’analisi della psicologia di un uomo che vorrebbe, ma non può non essere uno dei tanti.