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Un altare di rame e di parole
La parola che si fa immagine è il primo elemento di rilievo di questo romanzo. Già all’inizio prende corpo la visione dell’umile funerale contadino, con quella bara ondeggiante, portata a spalle, lungo una stradina fra i campi, dalla chiesa al cimitero, con le mani dei figli, del marito che toccano quel legno come a voler provare l’illusione di avere un ultimo contatto con la persona defunta. Non c’è nessuna retorica, non ci sono frasi fatte, ma poche misurate parole che hanno il potere di tradurre la lettura in una sequenza di rara efficacia, una scena che potrebbe benissimo comparire in uno dei tanti film del neorealismo italiano del dopoguerra. Ovviamente, c’è molto di più, c’è quel distacco che si cerca di colmare con il ricordo della persona amata, una donna silenziosa, un’ombra nella casa di cui ora si riscoprono le qualità proprie dell’umile. E c’è anche il tentativo di andare oltre la morte, di farla diventare un episodio della vita così come la nascita, in una continuità che non viene meno neppure nel “dopo”.
E’ il romanzo di un figlio che nella figura materna compendia, in un abbraccio ideale, quel mondo contadino da tempo scomparso, in un’atmosfera mistica che riscatta la polvere delle strade, la miseria di ogni giorno, la fatica di andare avanti per vivere.
Toccanti, poi, sono le pagine del ricordo della scomparsa, con quell’incapacità del tutto naturale che si ha di avere ben presente il viso in tutti i suoi dettagli. La memoria è nei gesti, nel portamento, nell’atteggiamento quotidiano, ma il volto tende a sfumare e solo le fotografie ce lo possono restituire, anche se, ingrandendole, finiscono con il mostrarci un viso che quasi non riconosciamo .
L’altare in rame che il padre e marito costruirà fra mille difficoltà, in preda alla febbre, senza nemmeno consumare i pasti diventa così l’emblema del romanzo, un riscatto di una condizione con il contributo del figlio che, raccontandoci quest’opera quasi titanica, realizza a suo modo un altro altare, fatto di parole.
C’è tutta l’asprezza di un mondo di stenti, in cui religione e superstizione si accavallano, ma in cui anche sentimenti quali la solidarietà sono ai massimi livelli. Al riguardo, toccante è la raccolta del rame necessario, con quelli che portano i loro paioli per la polenta; c’è chi ne ha due e ne ha ceduto uno, ma c’è anche una famiglia, più povera, che aveva solo quello; il padre non può rifiutare questo estremo atto d’amore e allora ne ritaglia un pezzo da mettere nell’altare, poi utilizza parte di un altro paiolo per aggiustare la striscia che ha tolto, onde restituire, utilizzato per lo scopo, ma rabberciato, l’indispensabile strumento per la cottura del cibo.
Camon è capace di commuovere senza invitare alle lacrime, riuscendo a fare di una vicenda familiare un’opera corale, così che un altare per la madre finisce con il diventare l’ara in onore e in memoria di una civiltà scomparsa.
Dopo la Vita eterna Camon ha scritto quindi un altro grande romanzo, per certi aspetti ancor più bello, perché è presente un ritmo, quasi un lungo adagio, di natura poetica, un’armonia che non viene mai meno, in una continuità invidiabile che coinvolge, rendendo i lettori partecipi, spettatori ignoti di fronte alle scene create dalle parole che si fanno immagini.
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Raramente, molto raramente, si ha l'occasione di poter leggere una recensione così equilibrata e precisa.