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La solitudine e la fine della parola
La solitudine dei numeri primi è la testimonianza più autentica di come la scrittura si stia “abbassando” e come la parola abbia perso il suo valore profetico e referenziale. Quasi una sorta di sfiducia della e nella parola. Quello che conta è dirlo, e poco importa il come. E ciò non è da inscrivere solo alla caterva dei difetti della odierna editoria o solo al presupposto dell’esigenza di una maggiore diffusione del libro. Insomma, una parola più democratica e poco arzigogolata, che attira un pubblico più numeroso, socialmente e culturalmente più stratificato.
Forse quello che conta al lettore postmoderno è l’intreccio, la capacità di suspence e di curiosità, ingredienti che certo non mancano in questo lungo racconto. Poco conta se un romanzo faccia letteratura o sia solo una parentesi – sebbene fruttuosa – di lettura.
Non stupisce quindi che il vincitore del premio Strega 2008 sia più uno scienziato che un umanista o, meglio ancora, più un matematico che un letterato. E questo parossismo di successo, celebrato dal connubio tra critica e mercato, in uno scrittore non tradizionalmente riconducibile alle humanae litterae non è certo una novità ma solo la continuazione della parabola novecentesca, iniziata già con le avanguardie e che ha visto tra i protagonisti di una rivoluzione copernicana uomini provenienti da una cultura più scientifica come Montale, Quasimodo et similia.
Paolo Giordano ha però il merito di non ammiccare ad alcuna velleità. Il suo scopo pare essere solo quello di fotografare una storia per quella che è, senza l’artificiosità del linguaggio, senza intervenire con spossamenti contenutistici di alcun genere.
L’arco temporale del romanzo è abbastanza ampio: va dal 1983 al 2007. Il racconto è lineare, intervallato da lunghi vuoti per non incidere sull’economia. Ed è questa la sua forza, la sua capacità di attirare l’attenzione, nonostante la storia, pur nella sua originalità, non abbia alcunché di fenomenale. Non fa gridare al miracolo. Procede lentamente, senza mai lasciarsi andare ad improvvise accelerazione. E ciononostante risulta avvincente, incuriosisce e svela “timidamente” il problema della comunicazione. Forse la scelta di un linguaggio così scarno ed essenziale, anoressico, si spiega e trova una sua giustificazione proprio in questo tema, in queste transazioni comunicative mancate, erroneamente gestite e spesso incrociate.
Alice e Mattia vivono all’ombra della loro problematicità e portano addosso il peso e lo sguardo severo di una società che non riconosce nella diversità l’unicità dell’essere e il suo potenziale. Tuttavia, se quella di Alice è una diversità di natura fisica (un incidente in montagna l’ha resa zoppa), quella di Mattia nasce da una psicosi e da un senso di colpa: l’avere abbandonato la sorella disabile in un parco, pur di non averla tra i piedi ad un festa di compleanno.
Ed è proprio questa Michela, smaterializzatasi nel nulla e mai riemersa dal fiume in cui forse è annegata violando così il principio di Archimede (nome dell’omonimo capitolo in cui è raccontata la vicenda) a rappresentare la mano invisibile dell’economia del romanzo, a guidare suo malgrado le azioni dei giovani: tutto ruota ed è al contempo riconducibile alla messa in discussione di questo principio. Sensazioni, emozioni e sentimenti collimano in una sorta di sincope, in cui il reale sfugge a qualsiasi logica comportamentale
Mattia, nonostante la giovane età, si assume tutta la responsabilità del fatto e questa lettera scarlatta diventa principio di autodeterminazione.
Alice e Mattia si conoscono durante una festa di compleanno (il topos ritorna: ciò che si è perduto sembra ritornare sotto mentite spoglie, come transfert, come proiezione): si riconoscono e scoprono nella loro diversità alienante il collante per una discreta e quanto mai silenziosa e a tratti anonima amicizia. L’amore sembra fuori dalla loro gettata: troppo simili per risultare complementari, troppo speculari per fondersi in un altro diverso da sé.
Il titolo ed il senso del romanzo sono spiegati dallo stesso autore nel ventunesimo capitolo: “I numeri primi sono divisibili soltanto per 1 e per se stessi. Se ne stanno al loro posto nell'infinita serie dei numeri naturali, schiacciati come tutti fra due, ma un passo in là rispetto agli altri. Sono numeri sospettosi e solitari e per questo Mattia li trovava meravigliosi… In un corso del primo anno Mattia aveva studiato che tra i numeri primi ce ne sono alcuni ancora più speciali. I matematici li chiamano primi gemelli: sono coppie di numeri primi che se ne stanno vicini, anzi quasi vicini, perché fra di loro vi è sempre un numero pari che gli impedisce di toccarsi per davvero. Numeri come l'11 e il 13, come il 17 e il 19, il 41 e il 43. Se si ha la pazienza di andare avanti a contare, si scopre che queste coppie via via si diradano.”
Anche in età adulta è ancora una volta la presenza di Michela a fungere da catalizzatore. Alice crede di riconoscere in una ragazza down la sorella mai ritrovata di Mattia. Il ragazzo, che nel frattempo si è trasferito in Germania dopo la laurea in matematica, pur sconoscendo il motivo, si precipita subito in Italia.
Diversità e incomunicabilità sembrano essere i due assi cartesiani su cui Giordano dipana la sua storia, spesso con freddezza scientifica, con l’inconfutabilità delle formule matematiche.
Il libro va letto senza pretese, meglio se si riesce a dimenticare l’alone mediatico e la ridondanza dello Strega. Che, probabilmente, creano aspettative così altisonanti da lasciare l’amaro in bocca alla sua conclusione.