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Ruggine e Ferro
Il suo nome è Gina ed è detta Ruggine a causa di quel suo gatto, Ferro, a cui è tanto attaccata. I due sono infatti legati da un vincolo indissolubile che, a differenza delle male voci, non si sostanzia in un rapporto di mera utilità bensì in uno di puro e sincero affetto.
Montici è il teatro ove le vicende si dipanano. La protagonista ormai anziana, vive tra i dolori dell’età e quelli dell’anima, sopravvive grazie alla pensione del defunto marito e giorno dopo giorno è oggetto delle calunnie e delle cattiverie del paese. La sua colpa risiede nel passato, un passato che l’ha vista vittima ma che l’ha eletta a carnefice. Un passato segreto e che ha tanto cercato di dimenticare, un trascorso che non perde occasione per tornare ad angustiarla. Poche le persone di cui può fidarsi e su cui può contare, tra questi vi è Don Feliciano – giamaicano, che ha preso i voti per fuggire alla povertà della sua terra natia e che a sua volta è mal visto dalla gente del luogo a causa di quella sua clandestina relazione amorosa – e, forse, Tamara.
Ruggine è un’emarginata, è una donna lasciata a sé stessa, una donna a cui nessuno va in soccorso per quanto alte, stridule o silenziose siano le sue urla. Ella è la riprova di quanto il pregiudizio possa essere lesivo, di quanto le voci e le cattiverie di quel “tutti sanno eppure tutti tacciono” possano siglare la condanna, di quanto il la mentalità chiusa e priva di contatti con il mondo esterno sia la peggiore delle amiche.
La sua è stata una vita infelice, caratterizzata da soprusi, miseria e violenze, una vita che l’ha incurvata ma non spenta, una vita che mai è riuscita a spezzarla. E chissà, forse, è proprio questo il suo più grande peccato. Chissà, forse è proprio questo che l’ha relegata ad essere una reietta, una strega, un essere che se morisse farebbe soltanto un piacere agli abitanti della zona, tutti anzini come lei eppure innocenti. Perché loro, di colpe non ne hanno. Anche se passavano volontariamente sotto le sue finestre, anche se sentivano le grida che lanciava, alcuno interveniva, al contrario. Si godevano lo spettacolo. Ma badate bene, ci diranno questi ultimi, non abbiate pena per Gina, essa è la colpevole perché se le è successo quello che è successo è solo colpa sua che per prima si è concessa e che per prima si è portata gli uomini in casa!
E quanto è facile condannare, puntare il dito, quanto è facile attribuire responsabilità quando per sopravvivere ci si è chiusi nel silenzio, nella vergogna, nella speranza di poter un giorno dimenticare. Con quella memoria che per prima, pur di dar tregua, si oblia nel vuoto, nel nulla, nel dimenticato.
Tuttavia Ruggine in quel mondo ci crede ancora. Vuole crederci. Pure se le fanno “i dispetti”, pure se le viene tolto quel poco che ha per campare, lei non demorde e spera. Le basta il minimo per avere fiducia nel domani. Le basta un mozzicone di rossetto, un cartoncino con due cassette, l’amicizia con Zarco, un goccio di vin santo e lui, FERRO. Perché lui è l’unico che più di tutti ama ed ha mai amato.
Il divenire non è clemente sino alle ultime battute con questa donna angustiata dalle avversità, ed anche se ha perso tutto ha ancora tutto. Perché la morte arretra innanzi alla sua tenacia, perché quel felino che ha la vita che gli scorre dentro non l’abbandona nemmeno quando vengono separati con la forza, non la lascia sino a che la vita stessa non defluisce dal suo piccolo corpo pieno di fusa.
Il tutto è avvalorato da un linguaggio diretto, fluente e duro. Anna Luisa Pignatelli cattura chi legge dalla prima all’ultima pagina, il ritmo narrativo è incessante e scandito da un susseguirsi di vicende che sono magnetiche per l’avventuriero conoscitore. Che soffre con Gina, che spera in meglio con lei, che ama Ferro, che è spiazzato da quell’epilogo ineludibile.
In appena 150 pagine, un connubio di emozioni che toccano le corde più profonde dell’animo umano.
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