Dettagli Recensione
Top 10 opinionisti - Guarda tutte le mie opinioni
Il ritratto di una civiltà
Potrebbe sembrare a primo colpo solo una storia di famiglia, quella di Bonaviri, ambientata in una Sicilia feudale, dove il confine fra la miseria e la ricchezza dei nobili e dei notabili è netto e invalicabile. L’infanzia di Peppi (Giuseppe, lo scrittore) è certamente descritta anche per fissare i ricordi, per mantenere quel legame alla natia Mineo da cui da grande se ne andò. Però è, soprattutto, il ritratto di una civiltà, quella contadina, oggi ormai scomparsa, un quadro illuminato dal sole cocente delle estati e dal gelo dell’inverno, popolato da povera gente che lavora dalla mattina alla sera per ricavare quel poco che le consenta di non morire di fame, seguendo un percorso immutabile che sembra relegarla alla dannazione terrena, con l’unica prospettiva della morte come fine di ogni sofferenza.
In questo senso si potrebbe ravvisare una somiglianza con le opere di Giovanni Verga, che quasi un secolo prima descrisse così bene la situazione di estrema indigenza delle popolazioni della Sicilia. C’è però, secondo me, una differenza sostanziale, perché nel verismo che connota le novelle o i Malavoglia figura preponderante la convinzione nell’autore che il dolore della povera gente sia un qualche cosa di naturalmente immutabile, così che i personaggi diventano comparse di una rappresentazione ripetitiva, senza atteggiamenti di pietà.
In Bonaviri, invece, c’è un forte affetto per questa sua gente sfortunata, è presente nel giovane Peppi l’anelito per il riscatto, con la sublimazione dei sentimenti, dell’amicizia e così il suo romanzo tende a essere inquadrato, più che nel verismo, nella corrente italiana del dopoguerra, il neorealismo, che tanti successi tributò alla cinematografia italiana.
Nella narrazione c’è quella partecipazione derivante dal fatto di essere membro di questa comunità di diseredati che è invece assente in Verga, di un’altra classe sociale, di quella piccola nobiltà di provincia che sa vedere come stanno le cose, ma non riesce a capire, o meglio ancora non vuole capire, perché la sua unica forza è nella rassegnata disperazione di questa moltitudine.
Il sarto della stradalunga è un diario di famiglia, costruito intorno alle figure emblematiche di Pietro, il padre, di Pina, la zia, e di Peppi, Giuseppe, ognuna delle quali si fa parte narrante, a integrazione del racconto.
La figura di Mastro Pietro, il sarto, uomo che, per l’ambiente, è un letterato, sapendo leggere e scrivere, è il ritratto di una speranza delusa, di quel tentativo di uscire dal cerchio della miseria, lasciando la campagna per l’artigianato; intorno a lui ruota un piccolo mondo di diseredati, che gli si rivolgono per chiedere di scrivere lettere d’amore, con esiti anche ameni, ma è solo un momento di elevazione, perché poi la realtà di quello stomaco da saziare riprende il sopravvento e l’impossibilità di farlo in modo adeguato segna indelebilmente l’animo, rende l’uomo taciturno, spento, perché la speranza di un cambiamento è definitivamente tramontata.
Non meno importante è la figura della zia Pina, zitella non per vocazione, ma per necessità economica, una donna rassegnata che ritrova la sua femminilità e quasi un senso di maternità nell’amore per i nipoti.
Quanto a Peppi il tutto viene visto con gli occhi di un ragazzo, a cui troppo presto si chiede di essere uomo per contribuire al magro bilancio familiare.
Intorno a questi personaggi chiave gira una piccola umanità, in preda a superstizioni, a ignoranza e a un’atavica fame. Nessuno è più importante degli altri e nessuno è importante se non nella misura della sua presenza con cui fornisce il contributo a darci un’idea di un mondo crudele, con i più poveri, uniti non solo dalla loro condizione, ma anche dalla solidarietà, da quell’amore per il prossimo ormai così raro a trovarsi.
E le parole fluiscono incessanti, con un ritmo blando, una cronaca che si anima ogni tanto dai voli di fantasia di Pietro che per lui costituiscono l’unica evasione dalla realtà.
Il linguaggio utilizzato è veramente encomiabile, perché l’autore riesce sapientemente a innestare nel quadro di desolazione umana le splendide immagini della natura del suo luogo natio, con tramonti, albe, campi di grano che scorrono davanti agli occhi increduli, ma soprattutto con un estro poetico di rara efficacia e che mi porta a concludere che questo più che un romanzo, è un poema, è il canto di uno che c’era e che riuscì a venirne via, oltrepassando quel confine che, tuttavia, per certi aspetti, vorrebbe ora ripassare per ritrovare quell’umanità di cui serba solo il ricordo.
Il sarto della stradalunga è un romanzo bellissimo, uno di quelli da leggere e rileggere per scoprire ogni volta qualche cosa di nuovo.