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Bolofeccia, li chiamavano, quelli come lei
Il significato del titolo del nuovo romanzo di Silvia Avallone viene svelato quasi subito, a pagina 28: “Sulla panchina che avevano ribattezzato, lei e la sua migliore amica, «Da dove la vita è perfetta»”.
Ci vogliono tuttavia 376 pagine per narrare – ma non necessariamente svelare - da dove la vita diventa perfetta per due gruppi di personaggi che s’intersecano, salvo sorprese finali, grazie a una natalità.
Da un lato ci sono i disperati (“Bolofeccia, li chiamavano, quelli come lei”) che vivono in una periferia immaginata (“Il romanzo si svolge in una città reale, Bologna. Il Villaggio Labriola è invece un quartiere immaginario, che rappresenta la mia personale geografia dell’esclusione”, confessa l’autrice nella post-fazione): la diciassettenne Adele, che riproduce il destino già toccato alla madre Rosaria rimanendo incinta di Manuel, giovane bellissimo e intelligente che intraprende la carriera delinquenziale – sino al parricidio - con il mito di Eminem.
Ma anche nella desolazione delle periferie e dei Lombriconi (“Quei mostri laggiù, li vede? Quelle torri? Ecco, alcune sono in parte occupate illegalmente. E anche quei due abomini più bassi e lunghi un chilometro…”) – così recitano canzoni e luoghi comuni – possono sbocciare fiori. Come Zeno (“Era un narratore, non un protagonista”), liceale-modello che ama Dostoevskij di amore letterario e Adele di amore adolescenziale.
Dall’altro lato c’è la borghesia: l’architetto Fabio (“Ci sperava sul serio ce un nuovo polo tecnologico, e il suo auditorium a forma di anima, avrebbero portato lavoro, occasioni e fama, e trasformato quella periferia in un posto migliore”), che ha sposato Dora, una letterata appassionata di Dostoevskij (anche lei!) e vive molti drammi (“Per la sua malformazione, per la sua sterilità, per la sua sofferenza”), anziché la bellissima Emma, con la quale in gioventù Fabio aveva formato una coppia perfetta.
Il raccordo – possibile, impossibile? - è rappresentato dalla neonata Bianca, mentre il diaframma tra i due mondi è il difficile tema dell’adozione (“lo ribadisco: il nostro compito non è trovare a voi un figlio. Ma a un minore in stato di abbandono una famiglia. Perché lui ne ha diritto, mentre voi no”) in una narrazione che scompagina le vicende sul piano temporale.
Giudizio finale: a tratti crudele, sornione, in fondo in fondo nazionalpopolare almeno quanto la sigla di Beautiful trasmessa dai televisori della periferia.
Bruno Elpis
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