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Chi copa deve coparsi.
Che cosa accadrebbe se si mescolassero lussuria, desiderio frustrato di maternità e amicizia tradita, in un ambiente violento e carico di superstizione come le montagne friulane di inizio Novecento? Ne scaturirebbe un romanzo quasi di impronta verista. E in questa storia di Mauro Corona gli elementi di un racconto naturalista ci sono tutti: un ambiente inclemente che obbliga alla fatica e alla miseria, pulsioni primordiali che trovano il loro epilogo nella violenza, un brutale senso della giustizia che si codifica in un’unica, inflessibile norma: «Chi copa deve coparsi» (Chi uccide deve uccidersi).
Il punto di vista del narratore è completamente calato nel mondo che descrive. Come nei più classici dei romanzi, qui tutto ha inizio con un manoscritto che fortunosamente è finito nelle mani dell’autore: è il racconto autografo del protagonista, Zino, che alla fine di tante tribolazioni affida alla carta le proprie confessioni. Che il manoscritto esista davvero (e così assicurano le parole di Corona in post-fazione) o si tratti un espediente letterario poco importa. Ciò che conta è il risultato: una narrazione che rapisce per autenticità, che colpisce il lettore netta e implacabile come un colpo d’ascia.
Ovvio che la lingua che Mauro Corona (o per meglio dire Zino Corona) impiega qui ricalchi per lessico e sintassi la parlata del protagonista: solecismi e sgrammaticature sono letteralmente elevate a sistema. Ma inesattezze nella concordanza verbale, assenza di doppie, vocaboli dialettali non tolgono nulla né alla comprensibilità né alla piacevolezza del testo, che anzi appare caricato di una profondità di significato e di una poeticità primitiva impensabili da ottenere con un registro ripulito.
«Non è niente di peggio che abbandonare la sua patria dove si è nati e vissuti» dice il narratore in apertura «e stati coi genitori, e i amici, e nei boschi a fare legna, e nei prati a falciare l’erba, e guardare a venire l’autunno, e aspettare Natale vicino al fuoco […] La gente sta bene a casa sua ma non sempre si può stare. Io invidio chi può farlo e mi fanno anche rabbia perché si lamentano sempre e dicono che vorrebbero andare via e non sanno invece la fortuna che hanno a stare là. Quando volti la schiena al tuo paese è da piangere. Non si dovrebbe mai andar via da casa sua.»
Oltre a Zino, Raggio, e gli altri disperati che popolano questo romanzo, è di certo l’ambiente, uno dei principali personaggi. In ogni momento emerge il legame strettissimo del protagonista con le montagne, i boschi, il Vajont. E non potrebbe essere diversamente, perché in fondo si direbbe che sia proprio da quella terra «selvatica e ripida che non da niente di buono ma che a me [Zino] piace tanto» che emergano i drammi e le sofferenze ineluttabili cui i protagonisti sono condannati.
Un romanzo selvaggio, spesso violento, ma anche tenero e commovente, come la carezza di una mano ruvida per la fatica.
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