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La ritornata
Tredici anni è l’età del ritorno al paese, ad un’esistenza di prima che nemmeno sapeva esistere. Perché lei, che un nome di battesimo non lo possiede e che è detta da tutti “arminuta”, la ritornata, è stata scaricata come una merce, come un pacco. Sino al giorno prima abitava con quelli che credeva essere i suoi genitori in città, la sua vita era semplice ma ordinata in quei suoi doveri quotidiani dettati dallo studio, da quelle sue passioni quali la danza e il nuoto. Il giorno dopo, il risveglio in un luogo che tutto sa tranne che di casa, in un luogo dove non vi è calore e dove non è altro che una tra “i tanti” figli. Eh si, perché oltretutto, ella che era sempre stata figlia unica, eredita pure la bellezza di sei o sette fratelli che, ovviamente, la rifiutano. Tutti, tranne la piccola Adriana, con cui divide il letto e le notti insonni, e Vincenzo, il maggiore che proprio però non riesce a vederla come sorella.
Ed è in questo focolare spento che scopre una nuova realtà. Si spoglia pian piano di quegli agi che sino ad allora l’hanno coccolata, si riscopre essere l’unica a parlare in italiano quando tutti gli altri sono forbiti di un dialetto che lei materialmente non conosce, ed ancora, apprende quella che è la fatica della sopravvivenza perché la sua famiglia natia è povera, combatte ogni giorno con la miseria. Ciascuno deve fare il suo, deve guadagnarselo quel rigatone al sugo o quella polpetta di pane che al pranzo o alla cena sono serviti, deve guadagnarselo quel mezzo metro di non intimità dove ciascuno ha possibilità di dormire.
Ma la più grande mancanza non è data dall’assenza di quella villetta sul mare in cui è cresciuta, da quel maglione in più che le veniva comprato, da quella bicicletta ora sgonfia che era soltanto sua, la vera mancanza è l’affetto, il calore e la comprensione umana. Adesso ella non è altro che una bocca in più da sfamare e quell’educazione ed istruzione che le è stata offerta e che le ha garantito prospettive migliori, è ciò che di fatto maggiormente la confina nell’estraneità. Perché ciò è avvenuto, si chiede. Non si sei mai comportata male, anzi, è sempre stata una figlia modello. Non ci sono alternative, di dice, la “madre adottiva”, doveva per forza essere affetta da una grave malattia, altrimenti non l’avrebbe mai restituita. Questa è l’unica spiegazione plausibile. O almeno così crede, la giovane protagonista di questa opera. E non può non confidarci, non sperare in questa soluzione, ha bisogno di avere una ragione a cui appigliarsi per giustificare il suo ritorno, il suo essere abbandonata, per non sentirsi un oggetto che inspiegabilmente – e senza una vera ragione – ha terminato al sua utilità.
Un abbandono, quello subito, che mai la lascerà, che mai potrà essere accantonato in un angolo del passato, in un cantuccio del cuore.
«Nel tempo ho perso anche quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. E’ un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco spazio che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure» p. 100
Un abbandono, questo, che le impedirà di identificare il nome “mamma” con una persona. Perché, chi e cosa è stato per lei, una madre?
«Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l’altra mi aveva restituita a tredici anni. Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo. In fondo non lo so neanche adesso» p. 108
Con “L’arminuta” Donatella di Pietrantonio ha dato vita ad un romanzo forte, intenso, commovente, crudo. Un elaborato dove la ricerca della verità si mixa alla sofferenza dettata dall’abbandono, dalla perdita di certezze, di fondamenta. E vi riesce con equilibrio, misura, empatia. Non cade mai nella compassione, nella pietà. Ogni espressione utilizzata è asciutta, aspra, tenace, ruvida, ed al contempo emozionante, solidale, ma mai miserevole e/o propria di odio e/o astio verso quella situazione in cui la protagonista viene a trovarsi.
Anzi. L’Arminuta è una ragazza che dalla sua sofferenza impara e ricostruisce il suo personalissimo percorso. Un cammino fatto di studio, ma anche di affetti riscoperti, in particolare per quella sorellina, Adriana, che con la sua pipì notturna, le sue ossa accentuate, le sue mani sporche, i suoi capelli unti e arruffati, il suo italiano sbagliato e la sua profonda saggezza, le restituisce la voglia e la capacità di amare ed essere amata.
«Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho imparato la resistenza. Ora ci somigliano di meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate» p. 163