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“Orfana di due madri viventi”
Ci sono romanzi che partono in sordina, lasciandoti brancolare per pagine e pagine in attesa di capire dove si vuole andare a parare, e poi ci sono romanzi come “L’arminuta”, che ti catturano immediatamente e non ti lasciano fino alla fine. Dalla prima riga, una ragazzina tredicenne ti prende per mano e, con i suoi occhi acuti e spaventati, ti mostra il mondo come appare a lei, il mondo confuso e ribaltato di chi ha visto, all’improvviso, andare in frantumi ogni certezza e ogni punto di riferimento.
Perché a quell’età sei fragile come un fiore di cristallo e le poche solidità le trai dalla famiglia. Invece, da un giorno all’altro, ti dicono che mamma e papà non sono le persone che ti hanno allevato. La tua casa non è più l’accogliente villetta sul mare che ti ha visto crescere. All’improvviso la tua famiglia diventa un’altra. Otto persone sconosciute da chiamare genitori e fratelli. Tre stanze troppo piccole da chiamare casa, in cui tutto sembra scarseggiare: il cibo, l’igiene e, soprattutto, l’affetto. Devi abituarti al dialetto, alla promiscuità, a condividere un letto che puzza di urina e a non sprecare niente perché nulla si può più dare per scontato, neanche un piatto di pasta al sugo.
Da pulcino di casa da coccolare, ti trasformi nell’ennesima bocca da sfamare. Uguale agli altri figli ma in fondo anche diversa, perché quegli anni vissuti negli agi pesano. Ti hanno offerto un’educazione e prospettive migliori, certo, ma in fondo ti hanno anche destinato all’estraneità. Ed è così che ti senti. Lontana dalla famiglia che ti ha concepito e poi abbandonato. E ormai lontana anche dalla famiglia che ti ha allevato ma che, infine, ha così facilmente rinunciato a te. Senza motivo. A martellare come un tamburo per tutte le pagine è infatti sempre la stessa domanda, che batte ritmicamente nel cuore e nella testa: perché?
“Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. E' un vuoto persistente, che conosco ma non supero”.
Donatella di Pietrantonio ha saputo dare vita a un romanzo straordinariamente intenso e commovente, raccontandoci la sofferenza di un abbandono e la silenziosa ricerca di una verità inspiegabile. Lo ha fatto con equilibrio e misura, senza alcuna concessione al pietismo. Le sue sono parole scabre e asciutte, perché il mondo dell’arminuta ha il volto aspro e tenace delle rocce brulle, la ruvidezza della vita dell’entroterra abruzzese, il terribile vuoto dello sradicamento. Eppure sono anche parole emozionanti, che arrivano dritte al cuore con grande potenza, perché possiedono la forza di una ragazzina che non si è arresa all’odio e al pregiudizio. Una ragazzina che, dalla deflagrazione della propria vita, è stata capace di ricostruire un nuovo significato per le parole madre, famiglia, amore. E tra le macerie si erge la figura della sorellina Adriana, con le sue mani sporche, il suo italiano sbagliato e la sua pratica saggezza. E’ grazie alla sua complicità e al suo amore che il cuore dell’arminuta può tornare a battere. E il nostro a scaldarsi.
"Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho imparato la resistenza. Ora ci somigliano di meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo."
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Commenti
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mettono in luce così bene l'anima di un libro,
senza incrinarne l'incanto.
La tua è splendida Manuela, grazie
Non so se sia un nuovo astro ma, a giudicare da questo libro (l'unico che ho letto di questa autrice), sicuramente è una voce convincente, che ha qualcosa da dire e da esprimere. Vale la lettura.
E' un libro che ho sentito e sapere di essere riuscita a trasmetterlo, in qualche modo, mi fa più che piacere. Mi fa commuovere. Grazie di cuore.
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