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I lombriconi.
Adele, pochi giorni ai diciotto anni, è sola in quella sala parto. Bianca, la bambina che porta in grembo da nove mesi, sta per nascere e tra le due sa che non potrà che esserci un breve ed unico saluto. Dopo quel lieve contatto, quel lesto “rendez vous” di appena 20 minuti, le loro strade si separeranno definitivamente. Non hanno che quei 1200 secondi da trascorrere insieme. E’ tutto quel che è a loro concesso.
Dora, trent’anni, insegue quella maternità come se fosse la sua unica ragione di vita. Insegnante di lettere, coniugata con Fabio e portatrice di Handicap a causa di quell’arto mancante, ella è schiacciata dal vuoto di quell’assenza. Due solitudini, quelle dell’adolescente e della donna matura, messe a confronto; imparagonabili, forse, così identiche, di fatto.
Zeno, lo studente di liceo classico e una madre in depressione da accudire, è nato narratore, non protagonista. Egli non è destinato a vivere una sua vita bensì, quella degli altri. Suo compito è, assistere, aiutare, osservare, riportare, essere la colonna portante di quegli attori già pronti a salire in scena. Manuel, amico di sempre, e da sempre, del liceale, è uno spacciatore. La sua strada si è brutalmente separata da tutto e da tutti, lui che è cresciuto curando quella donna che lo ha creato dalle ferite fisiche, e mentali, che quel padre tossico e violento immancabilmente le arrecava, adesso non desidera altro che denaro e riscatto.
E c’è un quartiere che si trova nei pressi della città di Bologna, un quartiere di casermoni, di povertà, soprannominato “I lombriconi”, un luogo dove vite al limite si intercalano tra loro, cercando di sopravvivere, credendo in un domani, anche se questo domani non c’è, perché sono tutti, inesorabilmente, nati per perdere. Non esiste una seconda chance, una possibilità di redenzione. Cos’ha la vita da offrire loro? Cosa loro possono offrire all’esistenza stessa? Vi è, poi, una vita perfetta? Si? No? Dov’è quel confine da cui si può affermare con assoluta certezza che ha inizio la compiutezza della medesima?
Con una penna forte, diretta e che nulla risparmia al lettore, Silvia Avallone, stupisce, conquista, semplicemente spiazza. Per tematiche. Per stile. “Da dove la vita è perfetta” è un testo doloroso, che ti arriva dentro, che ti fa stringere il cuore, un elaborato che nel suo insieme tratta una serie di problematiche non scontate ed anzi di grande impatto sociale. Tra le sue pagine troverete la solitudine, l’abbandono, la maternità non voluta in contrapposizione a quella desiderata, la sconfitta dell’impossibilità di scegliere diversamente, l’impotenza di poter cambiare le proprie vite, l’amarezza, l’attesa, la rinuncia, la complessità del rapporto genitori-figli e figli-genitori, bambini cresciuti troppo in fretta e costretti a prendersi carico di responsabilità troppo grandi, giovani che schiacciati dai doveri sono finiti con l’intraprendere il sentiero errato perché non hanno guide, non conoscono, né vedono altre vie in quella ricerca disperata di una fuga, e troverete ancora l’egoismo per quel desiderio che dirompente acceca e travalica tutto, perfino la ragione, nonché, la consapevolezza che perfino il dolore diventa sopportabile se giustificato dalla necessità di far del bene a quella creatura che ha formato quel “noi”, plurale, dalla volontà indiscussa di volerle garantire un futuro. Questo e molto altro ancora è, “Da dove la vita è perfetta”. Uno scritto ove l’autrice si supera, e si dimostra apprezzabilmente maturata.
«”Siamo, come si dice, arrivati ad un punto di non ritorno”. “Allora non ritorni” le disse semplicemente. “Non ritorni dove sa già che non troverà niente. Cambi strada. Vada altrove”.» p. 137
«Perché pensi che le torri, i cortili non siano interessanti? Li hai mai guardati, hai preso appunti? Finché non le metti nero su bianco, le cose, non le vedi. E poi, chi te l’ha detto che ti deve venire facile? Niente di più falso. Pensa che una volta ci ho impiegato un mese a scrivere una frase. Perché volevo che fosse perfetta e non lo era mai» p. 187
«Quando qualcuno ti abbandona, e lei lo sapeva bene, ti lascia in eredità un vuoto. Che rimane li, tra le costole, e non c’è modo di mandarlo via. Però, le disse. Tu avrai una vita intera per costruirci intorno delle cose belle. Sai, io non conto niente alla fine. E’ il mondo dove andrai ad abitare che conta. Un giorno ripasserò di qui, tra cinque, sei anni, te lo prometto. E la bambina più bella che vedrò giocare anzi non la più bella, la più felice, penserò che sei tu.» p. 305
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Commenti
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Grazie!
Confesso che Acciaio non mi aveva fatto una grande impressione.
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Grazie!