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Ore bruciate, tempo perduto
La penna intinta nel fiele di Lucio Mastronardi riflette lo stato di frustrazione di un perdente che finisce per sconfinare quasi nell’alienazione mentale.
E’ la cronaca della quotidianità logorante di un maestro di provincia vessato dal dispotismo saccente dei superiori, disprezzato dalla moglie per la sua inerzia, soffocato dal “catrame” , uno spesso strato di paura che di fatto paralizza ogni iniziativa.
Eppure, pagina dopo pagina, sorge il dubbio che la meschinità di certi personaggi non sia peggiore di quella dello stesso protagonista, anima in pena abbrutita dalle pastoie dell’abitudine:
“Mi accorgo che la mia vita è tutto un seguito di ore bruciate, di tempo perduto”.
Il ghigno che scorge sul viso della moglie non dev’essere così diverso dal suo, che vagheggia una vita diversa ma intanto sembra crogiolarsi nelle umiliazioni che subisce a casa e al lavoro e nella mediocrità delle chiacchiere tra colleghi a scuola e al bar.
Nessun riscatto nemmeno sul versante dell’affetto che prova per il figlio, sentimento superficiale che poco ha a che vedere con un autentico amore paterno e molto con la vanità personale.
La narrazione “sonora” sembra trasmettere la voce pacata e monocorde dell’io narrante, da cui ci si aspetta un gesto irrevocabile da un momento all’altro. Alla fine lo compie, a modo suo, sputando rabbiosamente sulla tomba della consorte e vedendo riflesso nello sputo, emblematicamente, il suo stesso volto.
Il romanzo, che per acutezza psicologica - o meglio psicoanalitica – ricorda Camus e Svevo, suscita profonda insofferenza, tanto che si arriva all’ultima, beffarda pagina con un senso di sollievo.
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Recensione intensa ed espressiva,
con pochi tratti dipingi egregiamente il quadro!
Complimenti Cristina
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