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Una vita di abbandoni
Una storia ruvida, fatta di emozioni soffocate e di abbandoni. L’Arminuta non ha neanche diritto a un nome. Per tutti, là in quel paese lontano dalla città, lei è l’Arminuta, la ritornata.
Dopo tredici anni passati in un nido caldo e amorevole, come un uccello che non sa ancora volare è stata buttata fuori dal nido, senza spiegazioni, e, ammaccata dentro, con una pena infinita, è approdata in un altro nido. Trova una famiglia, un’altra, ma capisce che questa è quella vera e che quella donna trasandata, avara di parole e di affetto, è la madre che l’ha partorita e data via. Scopre di avere una sorella, più giovane di lei di età ma con una conoscenza della vita quasi da adulta, una che forse bambina non lo è mai stata.
Scopre di avere dei fratelli più grandi che, come Adriana, la sorella, sono cresciuti come piante selvatiche e hanno messo radici e spine per difendersi dalla vita visto che i genitori sono preoccupati per lo più a mettere insieme il pranzo con la cena e non c’è tempo per preoccuparsi a come crescere i figli.
In quell’altra vita lei era la più brava della classe, andava a danza e in piscina, aveva amici e cresceva nella spensieratezza dei suoi anni. In questa nuova famiglia il padre è una figura di secondo piano, si sa che lavora in fornace, che aspetta stipendi arretrati e che è pieno di debiti. La madre, con l’ultimo dei figli che le gattona intorno, manda avanti come può la famiglia, chiusa nella sua apatia, trascina la sua vita come trascina le sue ciabatte, incurante dei figli e della loro esistenza. Solo quando uno dei figli maschi, Vincenzo, muore in un incidente stradale, quel grumo di emozioni che evidentemente covavano sotto braci apparentemente spente, esplode e la sua reazione è di ritirarsi dal mondo e passare le sue giornate distesa a letto, gli occhi sbarrati sul nulla.
E come due naufraghe alla deriva, un sodalizio complice nasce tra le due sorelle, così diverse ma entrambe affamate di affetto e di cure e imparano ad amarsi anche nella loro diversità.
Gli ottimi voti riportati alla licenza di terza media fanno frequentare alla protagonista un liceo in città vivendo a pensione presso una famiglia procurata dalla prima madre che mai si fa vedere ma che agisce per la sua protetta. Un’altra famiglia, altre persone con cui condividere la quotidianità, la disperante sensazione di essere un pacco che va spostato secondo disegni a cui lei non è dato di capire.
Ma l’Arminuta, esausta da questi continui spostamenti che le sconvolgono la vita, non demorde dal ricercare quella che per lei è la sua unica madre e che crede ammalata, altro motivo non può esserci dal momento che non l’ha più richiamata a sè. Ma una amara verità le viene crudelmente rivelata dalla sorella: la tanto desiderata madre non era ammalata ma aveva una brutta gravidanza e ora aveva avuto un figlio, quel figlio cercato per anni che lei era andata a sostituire. Ora con un nuovo compagno il figlio tanto cercato era arrivato e lei non sarebbe mai più ritornata dalla sua unica madre. Un altro ennesimo abbandono e proprio da colei che avrebbe dovuto amarla più di tutti.
La forza lacerante dell’odio si sostituisce nel suo cuore a quella dell’amore e le sue notti si fanno ancora più insonni, popolate da orribili fantasmi.
Il racconto si chiude intorno allo svolgersi di un pranzo tra Adalgisa, è questo il nome della madre che ha allevato l’Arminuta, il suo nuovo compagno, la protagonista e la sorella, pranzo che, per come si svolge, suggella l’unico vero affetto su cui l’Arminuta può contare: la sorella Adriana.
La scrittura dell’autrice è scabra, tagliente, non lascia spazio a sentimentalismi ma plasma i suoi personaggi con la forza della disperazione e dell’assenza.
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Commenti
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dal trasporto delle tue parole si evince come tu abbia apprezzato il romanzo.
Complimenti!