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Bello ma imperfetto
Ovvero della presa di coscienza delle masse. E’ lo stesso Pavese ad annotarlo in una breve postfazione: dopo le opere dedicate alla nascita della ribellione nelle classi più colte o agiate, è giunta ora di raccontare come pure gli strati più popolari hanno cominciato a non accettare più l’opporessione del regime (l’azione si svolge indicativamente alla fine degli anni Trenta). Non è però il suo essere a tesi a zavorrare il romanzo – in fondo lo sono tutti i lavori dello scrittore piemontese e ciò non impedisce loro di essere in molti casi dei capolavori: il problema è che si succedono i capitoli, ma la scintilla non scocca mai, lasciando il lettore orfano di una partecipazione emotiva che non può essere certo compensata dall’architettura intellettuale. Non contribuiscono i forse troppi personaggi che affollano quelle che sono comunque solo centocinquanta pagine: è difficile entrare in sintonia già a partire dalla figura principale. E’ probabile che l’antipatia che ispira per tre quarti almeno della vicenda sia funzionale al progetto di base, ma la caratterizzazione risulta spesso forzata: Paolo, detto Pablo perché suona bene la chitarra, è un giovanotto senza arte né parte che ignora il negozietto di famiglia per trascorrere notti di bagordi tra sbronze, balere e, se possibile, donne. Di queste ultime, va a scegliersi quella dell’amico appena rimasto paralizzato e la ragazza, Linda, lo mette in contatto con un danaroso impresario teatrale e il suo giro: le debosce assomigliano parecchio a quelle de ‘Il diavolo in collina’ – seppur qui, magari per il minore coinvolgimento, risultino più stereotipate - finchè la donna molla Pablo per l’impresario suddetto (nonchè per i suoi soldi) facendo sprofondare il protagonista in un mare di lacrime o, per essere più precisi, di bottiglie di vino. La faticosa risalita avviene attraverso il lavoro manuale e il trasferimento da Torino a Roma, in una primavera e in un’estate calde e accoglienti tanto quanto era stato freddo e umido l’inverno padano: un processo lento che si sviluppa come conseguenza dei contatti, oltre che con i libri, con gli embrioni delle varie sfaccettature della resistenza che fanno crescere l’uomo sia sul lato pubblico, sia su quello privato. Il giudizio politico è peraltro deciso, oltre che datato, con la contrapposizione tra il velleitarismo del gruppo che ruota attorno al gobbo Carletto e l’organizzazione comunista in cui lo introduce Giuseppe fino a farlo incontrare con Gino, reduce dalla Spagna sconfitto ma intenzionato a continuare a lottare. L’eccesso di strumentalizzazione che ne deriva conduce alla mancanza di sintonia accennata in precedenza, a partire da Linda che si rivela poco più che una smorfiosa opportunista con la quale Pablo non trova di meglio che ricascarci anche a distanza di tempo: i loro dialoghi, spezzati e senza coesione, ben rappresentano le difficoltà di comunicazione presenti in tutto il libro. Così, benché si parli moltissimo, a rimanere nella memoria sono soprattutto alcuni splendidi squarci descrittivi: le notti torinesi ora nebbiose ora limpide con la luna che fa brillare la neve oppure le tinte rotonde dei pomeriggi e delle serate romani trascorsi passeggiando lungo il fiume o chiacchierando sotto il pergolato di un’osteria.
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