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Una civiltà scomparsa
Ritengo opportuna una premessa, facendo ricorso alla memoria che di tanto in tanto fa riaffiorare accadimenti della mia prima infanzia, per spiegare il mio particolare interesse per questo bellissimo libro.
Molti oggi, tranne forse i più anziani, non sanno com’era, fino a non tanti anni fa, la vita nelle campagne. Io avevo degli zii che lavoravano la terra, non di loro proprietà, anzi alle dipendenze di quello che noi oggi, nei rapporti sindacali, definiamo ancora padrone, un uomo che per discendenza era sempre stato un padrone.
Per i contadini era una vita misera, fatta di cibo scarso e non vario (ricordo che a mezzogiorno c’era l’immancabile minestra di verdure con il riso di Napoli e alla sera un uovo sodo con l’insalata; il pane si vedeva solo la domenica e durante gli altri giorni della settimana era sempre presente la polenta). Il progresso, intervenuto con la fase industriale, non aveva scalfito questo modo di vivere, proprio di una civiltà immobile nel tempo, con una vita avara di soddisfazioni, animata al di fuori del lavoro nei campi - quando il lavoro c’era, perché spesso mancava - solo da racconti tramandati da secoli, frutto di un paganesimo cristiano impregnato di superstizione e di ignoranza. Quest’ultima era un comune denominatore, perché quasi nessuno sapeva leggere o scrivere e quei pochi che vi riuscivano cercavano, a modo loro, di ribellarsi, di incidere, rivoltandolo, quel modo di vivere. Che fossero anarchici o socialisti, come allora venivano chiamati, in ogni caso erano malvisti, considerati teste calde, sovvertitori di un ordine immutabile nel tempo.
Poi, quasi all’improvviso, questo mondo è stato stravolto e giustamente Ferdinando Camon, nel corso dell’intervista che gli ho effettuato, ha citato al riguardo Charles Péguy, un poeta francese che ha scritto che “la fine della civiltà contadina è il più grande evento della storia, dopo la nascita di Cristo”.
Così, che quando un caro amico mi ha parlato a grandi linee di questo libro, ho provato immediato il desiderio di leggerlo, perché attendevo da tempo un romanzo che parlasse di questa civiltà che non c’è più, sostituita dall’industria anche nell’attività dei campi.
Una pagina dopo l’altra, la prosa asciutta, non idilliaca, anzi lontana da certe visioni della vita agreste proprie dei grandi poeti latini e in particolare di Virgilio, mi ha avvinto e così, mentre leggevo, ho cominciato a vedere dei campi riarsi dal sole o raggelati dal freddo dell’inverno, della povera gente intenta a un lavoro duro e ben poco retribuito, ho sentito la puzza delle stalle, sono entrato in un’atmosfera immobile di miseria senza barlumi di speranza.
Ferdinando Camon ha dedicato questo libro a questa povera gente, inserendosi nel solco di altri che lo hanno preceduto, magari con intenti diversi, come Verga, Faulkner, oppure Saramago.
La sua, però, non è una narrazione asettica, ma nemmeno c’è l’abbandono alla retorica, semplicemente c’è il desiderio di portare la luce a una moltitudine di ombre, senza ricorrere all’enfasi, bensì permeando le parole di un grande senso di pietà.
E’ la sua gente, anche lui è nato in campagna e ha vissuto la giovinezza in quell’ambiente che poi il boom economico degli anni sessanta ha sconvolto, ha trasformato così radicalmente al punto di poter affermare che oggi la civiltà contadina è solo un ricordo, anzi senza il suo libro non sarebbe nemmeno questo.
Provate a pensare a un modo di vivere rimasto sostanzialmente inalterato nei secoli e perciò figurativamente eterno, considerate che era il ceto più basso, in cui la solidarietà e la superstizione erano gli aspetti salienti, se pur contrastanti, di un’esistenza il cui ritmo era scandito dall’avvicendarsi del giorno con la notte e delle stagioni, e dove tutto iniziava con la nascita, proseguendo quasi per inerzia fino alla morte, sovente prematura; avrete così un’idea, ma solo approssimativa, perché per capire veramente e per comprendere è indispensabile la lettura di questo romanzo.
Pagina dopo pagina sembra di tornare indietro di secoli, benché questa realtà, immobile, sia stata presente fino a una cinquantina di anni fa. E’ un mondo che si è estinto e che volutamente è stato cancellato dalla memoria come se fosse un qualche cosa di cui vergognarsi, come se quella miseria fosse un vizio capitale, da seppellire sotto coltri di reticenze.
La penna di Camon, che passa indifferentemente dall’epoca attuale al medioevo, da questo alla disfatta di Caporetto, e poi a quel guizzo di vitalità che è stata la resistenza, restituisce al lettore questa civiltà. Le pagine sulla ribellione alla dura repressione tedesca non sono celebrative, ma tendono solo a onorare la memoria di quanti, e non furono pochi, si scossero da un lungo torpore, anche a prezzo della vita, per poi ritornare, ombre nella notte, nel loro lungo silenzio, fino agli anni sessanta, quando la luce elettrica e la televisione svelò loro un altro mondo, meno di fatica, più di soddisfazione materiale, a cui finirono per abbandonarsi, perdendo la loro identità.
Questa comunità di poveri, dove il povero, secondo Camon, è l’uomo che non ha scampo ed è tale perché pure i suoi antenati non hanno avuto scampo, non ha personaggi che si staccano sugli altri, ma c’è un solo protagonista: essa stessa.
Se c’è un libro che ha reso giustizia a una civiltà, facendola conoscere alle generazioni attuali e a quelle future, è proprio questo e credo di poter dire che l’autore è stato un cantore di ciò che per tanto tempo fu e mai più sarà.
La vita eterna non è solo un romanzo molto bello, è molto di più, è un capolavoro.