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La lucertola azzurra dei faraglioni
L’AMBIENTAZIONE: CAPRI
"Il disprezzo" (1954) di Alberto Moravia era inizialmente intitolato "Il fantasma di mezzogiorno": Godard l’ha portato sullo schermo nel 1963, in un film che ha come scenario Capri.
Un’isola alla quale il protagonista narratore del romanzo - lo sceneggiatore Riccardo Molteni - attribuisce un potere miracoloso: la facoltà di cambiare i sentimenti della donna amata, la moglie Emilia, che invece disprezza il coniuge... mentre "il miracolo dell'amore ... per esistere deve non soltanto accendersi nel nostro cuore ma anche in quello altrui".
In questo desiderio, completamente tinto dell'azzurro che impera a Capri, la lucertola azzurra assume i connotati di un talismano vivente, ma non così sarà in questo dramma... “Improvvisamente, ad una svolta, ci apparvero i Faraglioni e fui contento di udire Emilia dare in un grido di sorpresa e di ammirazione. Era la prima volta che veniva a Capri e sinora non aveva aperto bocca. Da quell’altezza le due grandi rupi rosse sorprendevano per la loro stranezza, simili, sulla superficie marina, a due aeroliti caduti dal cielo sopra uno specchio. Dissi ad Emilia, esaltato da quella vista, che sui Faraglioni si trovava una razza di lucertole che non esisteva in nessun altro luogo del mondo: azzurre a forza di vivere tra il cielo azzurro e il mare azzurro… La lucertola azzurra che descrivevo annidata tra gli anfratti delle due rupi diventò ad un tratto il simbolo di quello che avremmo potuto diventare noi stessi, se fossimo rimasti a lungo nell’isola: anche noi azzurri dentro il nostro animo dal quale la serenità del soggiorno marino avrebbe gradualmente scacciato la fuliggine dei tristi pensieri della città; azzurri e illuminati dentro di azzurro, come le lucertole, come il mare, come il cielo e come tutto ciò che è chiaro, allegro e puro.”
La scena finale si svolge nella Grotta Rossa: “La Grotta Rossa si divide in due parti: la prima, simile ad un ingresso, è separata dalla seconda da un abbassamento della volta; al di là di questo abbassamento la grotta piega a gomito e si addentra parecchio fino alla spiaggia che ne occupa il fondo. Questa seconda parte è immersa in un’oscurità quasi completa e bisogna abituare gli occhi alle tenebre prima di intravedere la spiaggetta sotterranea, colorata stranamente della luce rossastra che appunto dà il suo nome alla grotta.”
MORAVIA, I CLASSICI E I CONTEMPORANEI
A Capri si giunge perché il protagonista Riccardo Molteni viene ingaggiato per scrivere la sceneggiatura dell'Odissea. Si apre una discussione tra Molteni, il regista e il produttore su quale sia l'impostazione che il film deve avere.
Molteni vorrebbe prevalesse il rispetto (l'equivalente di quella che in diritto si chiama interpretazione letterale della norma) per lo spirito classico o la poesia implicita nell'opera omerica. Lo sceneggiatore dichiara la sua adesione alla raffigurazione di Ulisse nell'inferno dantesco (canto XXVI, sotto riportato).
Il regista Rheingold vorrebbe invece realizzare un film che privilegi gli aspetti psicologici della relazione tra Ulisse e Penelope. “Un film sui rapporti psicologici tra Ulisse e Penelope… Io intendo fare un film su un uomo che ama sua moglie e non ne è riamato”. Assumendo la teoria freudiana come strumento interpretativo: “è il subcosciente di Ulisse che via via crea ad Ulisse stesso dei buoni pretesti per star qui un anno, lì due anni e così via.”
Il produttore Battista punta invece sulla spettacolarizzazione, in sostanza mira a realizzare un kolossal che amplifichi gli elementi fantastici, mitologici ed erotici dell'Odissea (“Una storia per così dire spettacolare… questo ha voluto fare Omero”).
Nella perfetta architettura del romanzo moraviano, la disputa tripolare riproduce sia il dramma personale e coniugale di Molteni, sia la dialettica servo-padrone (“Battista era il padrone ed io il servitore e… il servitore tutto può fare, salvo disubbidire al padrone”) postulata dal potere del denaro nella società borghese (“Sono io che pago”).
“La qualità distintiva dei poemi omerici e in genere dell’arte classica è di nascondere tali significati e mille altri che possono venire in mente a noialtri moderni, in una forma definitiva che chiamerei profonda… la bellezza dell’Odissea sta proprio in questo credere nella realtà come è e come si presenta oggettivamente… in questa forma, insomma, che non si lascia né analizzare né smontare… il mondo di Omero è un mondo reale… Omero apparteneva ad una civiltà che si era sviluppata in accordo e non in contrasto con la natura… per questo Omero credeva nella realtà del mondo sensibile e lo vedeva realmente come l’ha rappresentato e anche noi dovremmo prenderlo com’è, credendoci come ci credeva Omero, letteralmente, senza andare a cercare riposti significati.”
“Joyce anche lui interpretò l’Odissea alla maniera moderna… e nell’opera di modernizzazione, ossia di avvilimento, di riduzione di profanazione, andò molto più lontano di lei, caro Rheingold… Fece di Ulisse un cornuto, un onanista, un fannullone, un velleitario, un incapace; e di Penelope un’emerita Puttana… e Eolo diventò la redazione di un giornale, la discesa agli inferi il funerale di un compagno di ribotte, Circe la visita ad un bordello, e il ritorno ad Itaca il ritorno a casa, a notte alta, per le vie di Dublino, non senza una sosta per pisciare ad un cantone… ma almeno Joyce ebbe l’avvertenza di lasciare stare il Mediterraneo, il mare, il sole, il cielo, le terre inesplorate dell’antichità… Mise tutto quanto per le strade fango di una città del nord, nelle taverne, nei bordelli, nelle camere da letto, nei cessi… Niente sole, niente mare, niente cielo… tutto moderno, ossia tutto abbassato, avvilito, ridotto alla nostra miserabile statura…”
Bruno Elpis
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