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Una volontà di rinunzia e di abdicazione
Dopo Agostino (1943), Alberto Moravia torna a occuparsi dell’adolescenza ne “La disubbidienza” (1948).
Di fronte al giovane protagonista si spalanca il disagio del cambiamento in atto, che egli interpreta attraverso la disubbidienza (“La sua rabbia… Come se avesse avvertito l’inanità della violenza, essa si trasformò improvvisamente in una volontà di rinunzia e di abdicazione”), una reazione al tempo stesso spontanea e ragionata (“Forse, riprendendo a disubbidire su un piano più logico e più alto, egli non faceva che ritrovare un atteggiamento nativo e perduto”). Un processo che investe ogni dimensione vitale: la scuola; i genitori (“E voi perché mi avete fatto pregare tanti anni inginocchiato davanti il vostro denaro?”); il senso della proprietà e del possesso; il denaro, feticcio della società borghese. Infine la stessa vita (“Ora si era attaccato all’ultima parte del piano: la morte fisica”).
“Non mangiare: comprese ad un tratto che questa, fra tutte le disubbidienze, era la più grave, la più radicale, quella che maggiormente intaccava l’autorità familiare.”
All’autodistruzione si oppone tuttavia l’istinto di autoconservazione, un fiume sotterraneo che carsicamente affiora negli impulsi sessuali, indirizzati in un primo tempo verso la governante, poi verso l’infermiera che si occupa della sua malattia.
La scommessa della vita sembra legata alla capacità di normalizzare la trasformazione (“Gli pareva di aver trovato finalmente un modo nuovo e tutto suo di guardare alla realtà fatto di simpatia e di paziente attesa”).
Questo romanzo esalta le capacità analitiche di Moravia, che qui si avventano sia sul protagonista dell’età evolutiva, sia sui manufatti sociali che spesso strangolano l’individuo (“L’idea della morte come di un’operazione magica che gli avrebbe permesso di creare un mondo meno assurdo, più amabile e più intimo, in cui ogni cosa fosse giustificata dall’amore”).
Bruno Elpis