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L’affannosa ricerca d’un riscatto passa per via Ge
"Via Gemito mi appartiene, nel bene e nel male è la strada della mia infanzia.” Queste le parole di Mimí, primogenito di Federì, protagonista del romanzo di Domenico Starnone, Via Gemito, vincitore del premio Strega nel 2001. Romanzo autobiografico e di formazione, l’opera di Starnone descrive mirabilmente il viaggio di Mimí nel passato attraverso ricordi spesso dolorosi, immagini fissate nella memoria così come venivano rappresentate sulla tela con abili pennellate o leggeri colpi di spatola da un padre ossessionato dall’ambizione di diventare un celebre e stimato pittore.
“Vivere è certamente bello, quando la vita è pittata” usava dire Federì, e i suoi quadri ritraevano infatti per lo più scene di vita quotidiana. L’ansia spasmodica dell’artista, l’accanimento nella ricerca del successo spesso negato, fanno risaltare agli occhi del figlio i lati più drammaticamente rozzi e volgari del padre, facilmente propenso alla collera e alla violenza. Il bambino Mimì prova sentimenti contrastanti per questo padre ingombrante, tanto ingombrante da offuscare completamente la figura della madre Rusiné. Odio, disprezzo, ammirazione e paura si alternano nell’animo di Mimì, che confessa di desiderare la morte del padre, ogniqualvolta assiste alle percosse subite dalla madre. E questo sentimento così lacerante nei confronti della figura paterna impedisce al bambino di assaporare pienamente il calore dell’affetto materno. L’egocentrismo esasperato induce Federì a patetiche menzogne: la sua fragilità si mostra inequivocabilmente in questa spasmodica esigenza di consenso. Non è capace d’amare, Federì, perché a sua volta non ha conosciuto tenerezza e amore nella sua infanzia. Tutti coloro che gli vivono accanto vengono trattati con sufficienza e disprezzo. Eppure in questa natura perennemente scontenta e aggressiva , si nasconde una vena di allegria, una tendenza al gioco che lo vuole sempre protagonista.
Cresciuto dilaniato da questi sentimenti contrastanti, Mimì si appresta a compiere questo viaggio a ritroso nella sua vita, rivisitando i luoghi della sua infanzia, i luoghi dell’infanzia paterna, per cercare di capire di più, di avere una possibilità di riscattare in qualche modo la figura paterna. Questa ricerca non può ignorare l’opera artistica di Federì, non può tralasciare soprattutto quella tela gigantesca per cui aveva posato bambino, per ore, senza osare di fare il minimo movimento, soggiogato un po' dalla paura un po' dall’ammirazione per il padre, quella tela che rappresentava I bevitori.
Ed è qui che Mimì ricorda come corresse “dietro alla vita sciupata, sopraffatta dalla smania dei risultati” , consapevole di quante energie suo padre avesse sprecato, privando Rusinè e i figli di quella attenzione e quell’affetto di cui necessitavano. Quel quadro rappresenta un momento importante nella vita di Mimì. Ne I bevitori ogni tratto, ripreso e fissato nel colore è una memoria figurata, che riporta in vita sentimenti, passione, odio, disprezzo, ammirazione. Ciò che ne deriva,, tuttavia, è un acuirsi della ferita dell’infanzia e, al contempo, un’urgenza di placare l’animo in una riconciliazione definitiva.
Con questo romanzo, Starnone risponde a un’intima esigenza di mettere ordine negli avvenimenti del passato e lo fa attraverso la letteratura, il mezzo espressivo più idoneo a ripercorrere quegli eventi determinanti di una vita, a prenderne coscienza e accettarli come parte integrante del nostro mondo e del nostro essere.
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