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Miuri malava, miuri...
«Per difendermi lascio andare tutto ciò che di me è duro, denti, schiena, pugni, piedi e divento acqua che non si può trattenere. Da quanto la mano prende la rincorsa e colpisce? Un’ora, due, tre, quattro? Qui sotto anche il tempo ha i piedi legati ai ceppi. Vorrebbe andare e inciampa, ricade, a volte si rialza a volte no. Ha il passo ubriaco, ha il passo arrugginito, si piega in avanti, ha catene legate a caviglie invisibili. Il tempo si arrende, non passa ma cade, e quando il cuoio scende sulla pelle sembra rotolare da una montagna altissima, e tutto dura anni, rallenta, si ferma; sulle ferite si formano croste dure e marroni» p. 48
Dolce Catena ha appena quindici anni quando le sue mani sono costrette a macchiarsi di sangue. Ella non è una semplice adolescente, la vita l’ha costretta a crescere in fretta; da quando infatti il padre è venuto a mancare si è modificato anche l’equilibrio degli affetti che regnava in casa talché la giovane è stata trascinata in una spirale di inesorabile dolore. Vittima della brutalità di uno zio che non si è accontentato di entrare nel letto della madre - donna incapace di donare amore perché accecata dall’odio - oltreché figlia reietta e odiata perché colpevole di aver attirato le attenzioni di quell’uomo, questa poco più che bambina, rifiuta di spezzarsi alle intemperie, non si arrende. Ha voglia di vivere, ed è disposta a tutto pur di riuscirvi. Nella sua mente aleggia il ricordo di Giovanni, genitore che le ha insegnato a leggere nonché a trarre beneficio ed arte dall’uso delle piante che la natura offre all’attento conoscitore, in lei vive la speranza. Ecco perché, dopo aver scoperto che la notte può fare paura anche tra le mura della propria casa, si ribella a chi dovrebbe amarla ma non lo fa. Determinata fa sentire la sua voce, si oppone alla condizione di tormento in cui verte anche se questo significa attirare su di sé nuovo odio, anche se questo significa passare da un disprezzo ad un altro.
Carmela Scotti ci trasporta con le sue parole nella Sicilia magica delle leggende e delle tradizioni del XIX secolo, ci rende omaggio di un’opera capace pagina dopo pagina di commuovere, far soffrire e riflettere. Perché le sofferenze di questa giovane protagonista, non giungono al loro culmine con un atto di ribellione, anzi, si protraggono senza sosta per tutta l’esistenza della “malava”. Catena è un personaggio che vive in un mondo fatto di violenza, in una realtà in cui deve essere forte, dura e se necessario anche spietata perché nessuno le riserverà mai una carezza. Non sa cosa significa essere amata, ne amare. Nessuno glie lo ha mai insegnato. L’unico gesto di affetto e di protezione lo ha ricevuto da quella figura paterna che troppo presto l’ha lasciata. Eppure, paradossalmente, Catena, ama e a dona quel suo amore a terzi.
L’Imperfetta è un romanzo che nulla risparmia al lettore, è un elaborato in cui si alternano il presente ed il passato; la vita della donna si ricompone infatti un intervallo dopo l’altro, veniamo a conoscenza, cioè, di quello che è stato e di quello che è divenuto il suo futuro, un passo alla volta, piano piano. L’autrice si concentra in particolar modo sullo stile, dando vita ad un componimento che nella sua crudezza è poetico. Al tempo stesso non manca la forza del contenuto, in particolare, estremamente interessante è tanto la descrizione del tormento vissuto dalla “strega” nelle carceri tanto quello determinato dall’ambiente familiare e naturale circostante.
«Ci sono dolori che nessuna erba del campo può guarire. Io sono nata da una radice di dolore, la felicità non so com’è fatta, se ha faccia, mani o bocca per parlare. Ci sono dolori che non si rompono, che sono duri più delle montagne, e se incontrassero la felicità, la schiaccerebbero come una formica» p. 134
«Volevo che la pagnotta mi insegnasse ad aspettare, a fare senza, a calmare il respiro, ad avere la disciplina che serve per non morire domani. Se non avessi imparato a fare a meno, a riempire l’attesa con il desiderio disperato, non sarei durata un giorno di più, sarei morta all’ombra della prima mancanza. Perciò sedetti di fronte al pane e lo pensai senza toccarlo, fino a quando la fame mi consumò tutta, come un moccolo di candela» p. 136