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Due scomode realtà.
La fortuna e il destino dell’uomo dipendono in gran parte dal luogo in cui nasce, dal periodo storico, dall’etnia alla quale appartiene. Si ha un bel dire che tutti gli uomini sono uguali, la realtà con la quale ogni giorno ci dobbiamo confrontare ci insegna che l’umanità è sempre tristemente divisa tra forti e deboli, ricchi e poveri. Lungi dal diminuire con il progresso e l’emancipazione dei popoli, il divario va sempre accentuandosi, per molte ragioni, che siano politiche, economiche o religiose. Il fenomeno della migrazione delle genti, antico quanto il mondo e in questo periodo storico ripreso in maniera massiccia sta mutando il nostro modo di vivere, le nostre abitudini, il nostro atteggiamento, non sempre disponibile alla tolleranza e all’ospitalità.
Nel suo ultimo romanzo “Orfani bianchi”, Manzini ci racconta la storia di una donna moldava, giunta in Italia per trovare lavoro e inviare soldi alla madre rimasta nel paese di origine, per il mantenimento del figlio, avuto con uno sciagurato presto scomparso dalla sua vita. L’esistenza di Mirta è dura, come quella di tutte le persone nelle sue condizioni, costretta a cambiare spesso lavoro, mal pagata e rassegnata a essere trattata come una serva, se non come una schiava. Alla morte improvvisa della madre consegna il figlio dodicenne ad un internat, un orfanotrofio, con la speranza di poter racimolare tanto denaro col lavoro in Italia, da avere poi la possibilità di portarlo via con sé. Così suo figlio va ad ingrossare le fila dei cosiddetti “orfani bianchi”, bambini e ragazzi abbandonati da genitori che non sono in grado di mantenerli. Mirta dunque, con qualche stratagemma discutibile, riesce finalmente, dopo lavori faticosi e sottopagati, a trovare una sistemazione come badante di una vecchia signora inabile, molto benestante, della cui cura il figlio e la nuora non hanno alcuna intenzione di occuparsi. Ed è qui il quesito principale che Manzini pone a se stesso e al lettore, come è evidente nella quarta di copertina del libro: “quanto costa rinunciare alla propria famiglia per badare a quella degli altri?” Troppo spesso infatti non ci si pone questo problema, non ci si rende conto che il prezzo è altissimo, che chi viene in cerca di speranza e sopravvivenza spesso assiste al disfacimento della propria famiglia, con la conseguente perdita di ogni affetto e di ogni equilibrio psicofisico.
L’altro tema, non meno importante, di questo romanzo si concentra sulla difficile situazione di quegli anziani non più in grado di essere sostegno per la famiglia e a volte per la società. Essi sono un peso, come la ricca Eleonora del romanzo di Manzini, che, consapevole della sua inutile e ingombrante presenza, vorrebbe morire. La malattia la incattivisce e agisce con disprezzo e malversazione nei confronti di chi la accudisce. Dunque due esistenze drammatiche si trovano a confronto, si sfidano, si misurano ognuna con le sue debolezze e con la volontà di sopraffare l’altra. Ecco dunque come ormai è cambiata la nostra società. Le famiglie sono sempre meno il luogo di rifugio per gli anziani inabili, per ragioni che a volte sono anche comprensibili, visti gli impegni di lavoro e i ritmi frenetici della vita, ma che ci riportano a un concetto di progresso disumanizzato, tipico di questa “società liquida”, per citare Umberto Eco (Papè Satan Aleppe).
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Commenti
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Ho appena terminato questo libro, che mi ha lasciato davvero tante emozioni, e le tue parole, come sempre, ne offrono un ritratto profondo e accurato.
Io prediligo da sempre la letteratura italiana e appena ci si imbatte in un ottimo lavoro, ne sono felice.
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La tua bella recensione evidenzia la tematica sociale. Penso che trattare aspetti come questo sia positivo.
In questo periodo, però, sono maggiormente affascinato dallo scavo esistenziale. Forse è per questo che prediligo la letteratura nordica.