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La ricerca delle radici
Non vi è nelle pagine di Pavese l’immagine delle Langhe “Patrimonio dell’umanità”, dei paesaggi dove il lavoro dell’uomo ha rimodellato la natura, creando un habitat perfetto in cui i vigneti disegnano sontuosi panneggi e, poco più in alto, le schiere ordinate di noccioleti testimoniano la possibile armonia tra le coltivazioni e l’utilizzo industriale, in una scenografia dominata sullo sfondo luminoso dalla sagoma forte del Monviso che stacca dalla catena alpina.
Il mondo di cui parla Pavese, le Langhe dall’inizio del secolo sino al 1948, è ben altra cosa: un luogo di ricordi umili, di lavoro duro, il mondo di una comunità in cui il benessere era di pochissimi, ma dove si creavano solidi rapporti umani. Un mondo racchiuso fra S. Stefano Belbo e Canelli, dove “per farcela a vivere non bisogna mai uscirne” come dice Nuto, l’amico ritrovato, al protagonista del romanzo, un ‘io narrante’ di cui non viene detto il nome, ma solo il soprannome di Anguilla. Un mondo che crea un forte radicamento, da cui il protagonista, forse perché trovatello senza un luogo di nascita (“bastardo” come si autodefinisce), ha trovato la forza di staccarsi, emigrando negli Stati Uniti nel periodo del fascismo e della guerra. É però sufficiente incontrare in America un emigrato piemontese che gli parli di Nuto e delle Langhe per fargli sentire un richiamo tanto forte da lasciare tutto per tornare, avvertendo il bisogno di “mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più di un comune giro di stagione”.
Se al ritorno trova considerazione e rispetto perché era riuscito ad andarsene per tornare benestante, non trova però le facce e le mani che avrebbero dovuto toccarlo e riconoscerlo: di tanta gente viva allora resta solo Nuto a fargli riallacciare i rapporti con il tempo andato, pur essendo anche lui cambiato, segnato dagli anni e dagli eventi, ormai un uomo che ha appeso al muro il clarino con cui suonava nelle sagre per dedicarsi al lavoro e alla famiglia, “Quel che restava era come una piazza l’indomani della fiera, una vigna dopo la vendemmia, il tornar solo in trattoria quando qualcuno ti ha piantato”. Una comunità in cui i cambiamenti non erano soltanto dovuti agli anni trascorsi, ma anche, più dolorosamente, alla profonda ferita lasciata dalla guerra e dalla lotta di liberazione.
È però ancora viva la cultura contadina che attribuisce ai cicli della luna un ruolo importante per le attività agricole e che per rendere il raccolto più succoso confida nei falò, accesi nella notte di san Giovanni per bruciare i sarmenti, tanti da illuminare nel passato tutte le colline. Su uno dei falò, il più tragico, si chiude questo ritorno nel passato: un falò che segna anche una lacerazione dei rapporti sociali nella comunità, cui la guerra aveva portato.
Il linguaggio essenziale, segnato da piemontesismi, è una perfetta espressione del soggetto narrante e dello stile neo-realistico di Pavese. Presente e passato si fondono in un unico narrativo, segnando la forza del legame con i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, senza che si avvertano le cesure del flashback, se non per il periodo in cui “Anguilla” parla delle esperienze di emigrato negli Stati Uniti. Un ritorno intriso di malinconia, quando i ricordi portano le immagini delle figlie del proprietario che abitavano la villa in cui lavorava da ragazzo, allora viste come entità quasi mitiche, inavvicinabili e che si sono perse nel corso della vita; o nel ritorno al casolare dove era cresciuto con la famiglia cui era stato affidato e che poi si era dispersa. Qui incontra Cinto, ragazzo che resterà drammaticamente orfano, che lui aiuterà a riscattarsi da un futuro di povertà e che rinsalderà così il suo radicamento con questi luoghi. Invece, dopo l’ultima pagina del romanzo, si interromperà per sempre il rapporto di Pavese con le Langhe e con la vita.
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