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Non ci sono molte alternative al cinismo
“La prima verità” (premio Campiello 2016) di Simona Vinci affiora in un romanzo duro, composto da quattro parti che rappresentano un sistema di vasi comunicanti.
Nella prima sezione, Angela e Lina, due giovani donne che ben presto si legano anche sentimentalmente, partecipano al programma “di un gruppo di operatori psichiatrici triestini che avrebbe lavorato alla deistituzionalizzazione dell’ospedale”. L’ospedale è l’orribile manicomio dell’isola di Leros, nel quale il repressivo regime dei colonnelli greci cercò di confinare i malati di mente. Due psichiatri, la dottoressa Lellis e il dottor Moros (“Sono diventato psichiatra per curare la testa della gente e mi ritrovo qui a fare il domatore di leoni”), dirigono la struttura senza porsi troppi problemi etici (“Qui non ci sono molte alternative al cinismo”).
Nella seconda parte si narra la storia del poeta Stefanos, padre di Lina, prigioniero politico che nel 1968 venne rinchiuso nella struttura confinante con il manicomio ove la dittatura ellenica deportava e isolava gli oppositori del regime. Il poeta cerca un contatto con una paziente, Teresa, e un bambino, Nikolaos: la delicatezza di questo rapporto dovrà tuttavia fare i conti con la crudeltà dei carcerieri…
Poi Angela decide di tornare a Leros per azzerare i suoi sospesi con il passato e restituire a Nikolaos un tesoro umano: le poesie di Stefanos. Nel frattempo il manicomio è stato smantellato e quindi occorre risalire a “l’elenco di indirizzi delle case famiglia nelle quali erano alloggiati i pazienti sopravvissuti”.
Nell’ultima sezione la narratrice ricorda la gioventù trascorsa a Budrio, cittadina ove c’erano due ospedali psichiatrici: il periodo evocato è quello successivo alla legge Basaglia (“Nel 1978… l’anno nel quale in Italia ai matti veniva consentito, per così dire legalmente, di ricominciare a circolare per le strade”); poi, per interesse personale, la narratrice affronta un’esperienza dolorosa: “Per… capire… un istituto psichiatrico prima della riforma Basaglia sono dovuta andare… in Africa, Sierra Leone. L’ospitale psichiatrico di Freetown, il Kissy Mental Hospital…”
Viene così a contatto con una realtà terribile (“Ognuno dei pazienti aveva una caviglia incatenata al letto. E alcuni letti erano a loro volta incatenati ai muri”), che le consente di comprendere (e immaginare) la realtà di Leros.
Il romanzo è crudo, descrive le sofferenze e le violenze senza mezzi termini, e preferisce percorrere la via diretta dell’enunciazione esplicita. Il tema, in sé complicato, avrebbe potuto essere affrontato nella forma pura del saggio o con una rappresentazione del tutto artistica. L’autrice ha preferito scegliere una modalità ibrida e romanzesca…
Bruno Elpis