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Vento scomposto di Simonetta Agnello Hornby
Nei ringraziamenti l’autrice dichiara di aver scritto il romanzo prima in inglese e dopo in italiano; la traduzione in italiano non è stata una mera traduzione, ha dovuto reinventare il tono, il passo, il ritmo della storia, dichiara il suo sforzo per rispettare in entrambe le lingue, l’anima intrinseca, l’armonia del linguaggio, la pertinenza del lessico. Un lavoro di cesello e di consulenza psichiatrica.
Nello scrivere questo romanzo ha attinto alla sua esperienza di avvocato, di docente universitario e di giudice.
Nella nota introduttiva, l’autrice ci informa che il Children’s Act del 1989 ha rivoluzionato il sistema legale inglese: il minore ha diritto a un suo tutore legale e a un avvocato a spese dello stato, come i suoi genitori, con lo scopo di sostenere le famiglie e tutelare i minori. Ma negli ultimi 20 anni molte inchieste pubbliche su tragedie causate dall’inefficienza dei servizi sociali, dovute al pesante intervento dello stato sugli organismi di controllo, all’assunzione da parte degli organici dei servizi sociali di personale di agenzie o proveniente dall’estero, inesperto e al ricorso di perizie di psichiatri infantili in situazione che nulla hanno a che fare con la malattia mentale di un minore, hanno sconvolto il pubblico inglese. “Troppi assistenti sociali sono incompetenti e arroganti, troppe famiglie di utenti sono considerati alla stregua di oggetti e non come persone, troppi periti godono di un senso di impunità, al riparo come sono del giudizio pubblico, in quanto i procedimenti sui minori avvengono a porte chiuse per proteggere il minore. E, tristemente, troppe volte la voce del minore rimane inascoltata”.
Con questa premessa inizia l’odissea legale della famiglia Pitt. Vivono a Londra, nel quartiere elegante di Kensington, Mike che lavora alla City come merchant banker, Jenny, consulente di una prestigiosa catena di negozi e le due figlie, in età scolare, Amy e Lucy. In questa, dorata, vita alto-borghese, la calma apparente di questa famiglia viene sovvertita dai sospetti della maestra d’asilo di Lucy che ravvisa nei disegni della bambina segnali di abusi sessuali da parte del padre.
Inizia un periodo nero per Mike e la moglie; vengono interrogati, controllati e passati al vaglio dai servizi sociali, i quali nella loro miope ostinazione innescano un meccanismo tortuoso che trascinano i due coniugi in un incubo che sembra non finire. Per uscire da questo labirinto di accuse ed infamie, Mike si affida all’assistenza legale di Steve Booth, avvocato specializzato in diritto di famiglia che lavora per una clientela disagiata e multietnica di Brixton.
Questo romanzo è completamente diverso dalle prime tre opere della scrittrice, dalla Sicilia con passione in affreschi di famiglia e storie di donne dal passato misterioso all’Inghilterra di oggi, in un contesto forense e di dibattimenti giuridici; storia di costume e inchiesta sociale si frappongono e rilevano le competenze precipue dell’Agnello Hornby, la quale si muove su un terreno usuale con stile e perizia specifica. Si alternano gli ambienti alto-borghesi e i quartieri di periferia, le aule di tribunale e i luoghi cittadini quali mercati, giardini. Il romanzo è costruito sulle esperienze di giurista dell’autrice, attinge ad un materiale sociale e umano che conosce nei loro intimi conflitti famigliari. E’ l’occhio dell’esperto quello che si compenetra in questa umanità in bilico tra innocenza e colpevolezza, è l’osservatorio privilegiato della giustizia che si basa su prove, ma anche su pregiudizi, sospetti o intuizioni fuorvianti, è lo stile specialistico scevro da architetture metaforiche e soluzioni linguistiche fantasiose e permeate da molteplici variazioni. Ne risulta una storia fredda non particolarmente ricca di patos e tensione, i frammenti di vite rappresentati sono ridotti a clienti con cui non solidarizzare, ma piuttosto risolverne tecnicamente le problematiche. Non traspare l’anima della scrittrice, ma la competenza disciplinare e il distacco professionale di chi opera in uno specifico settore. Simonetta nella trilogia precedente aveva abituato noi lettori a storie insaporite da un linguaggio duttile, ricco di sfumature, laddove la libertà espressiva coglie l’ineffabile, l’immanenza dell’esistenza senza la presunzione di decretarne il valore di verità; ma in questa opera prevale l’oggettività dei fatti, la necessità di regolare la molteplicità degli eventi, quando sono alterati dalla fallacità e dalla vulnerabilità umane.