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Autobiografia senza biografa
Ritratto personalissimo e pudico della famiglia dell'autrice, in cui attraverso le semplici frasi del loro parlare quotidiano, si snodano le vicende di personaggi tutt'altro che ordinari.
Attorno ai Levi ruota con naturalezza la Torino borghese, ebraica e antifascista del trentennio '30-'50 e la loro vita si intreccia con quella di alcuni uomini come Adriano Olivetti e Cesare Pavese.
Di loro, come per tutte le principali figure descritte nel romanzo autobiografico, la Ginzburg sceglie solo pochi tratti, ma acutissimi e distintivi, con la sensibilità di una bambina che tutt'a un tratto si ritrova matura.
Di Olivetti: "...ricorderò sempre la sua schiena china a raccogliere, per le stanze, i nostri indumenti sparsi [...]. E aveva, quando scappammo da quella casa, il viso di quella volta che era venuto da noi a prendere Turati, il viso trafelato, spaventato e felice di quando portava in salvo qualcuno."
Di Pavese: "L'amore lo coglieva come un travaglio di febbre. Durava un anno, due anni; e poi ne era guarito, ma stralunato e stremato, come chi si rialza dopo una malattia grave."
Uno stile dunque lucido, essenziale, colloquiale, ma che centra sempre il bersaglio.
Gli eventi sono narrati per sottrazione, ossia togliendo molti particolari e lasciandone alcuni di per sè insignificanti, ma importanti nella memoria dell'autrice e nei quali riconosciamo universalmente l'unicità della sua famiglia.
Il padre burbero e pionieristico (andava a "skiare" ben prima dell'avvento del turismo di massa) e la madre eterea e ottimista (anche in mezzo alla bufera fascista, che comunque risparmiò tutti i Levi), appaiono quasi ingessati nei loro cliché e nel loro "lessico famigliare" ripetuto, che sembra di conoscerli da sempre.
E immediatamente viene da pensare a come tutte le famiglie in fondo si rassomiglino, nonostante le enormi differenze dettate dagli eventi, proprio per l'esistenza di alcune parole e delle espressioni uniche che le caratterizzano.
Tornando allo stile, la sottrazione più evidente riguarda proprio l'autrice, che preferisce raccontare poco di sè ed essere spettatrice ironica e defilata nell'ombra delle innumerevoli case abitate dai Levi:
"La casa di Via Pastrengo era molto grande. C'erano dieci o dodici stanze, un cortile, un giardino e una veranda [...]; era però molto buia, e certo umida, perché un inverno, nel cesso, crebbero due o tre funghi."
Unico appunto che mi sento di fare a questo capolavoro è che, a furia di sottrarre ed omettere, le neanche 200 pagine del libro sono troppo poche; si vorrebbe conoscere qualcosa in più, ad esempio sulla prematura scomparsa del marito Leone Ginzburg, o su Turati e Salvatorelli.
Ma del resto dolore, politica e giudizi personali trovano rarissimo spazio nel "Lessico": sarà stato per snobismo, indolenza, o semplicemente per scelta?
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Commenti
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Questo libro e "Le piccole virtù" sono gli unici dell'autrice che mi siano piaciuti, fra quelli che ho letto. Però sono notevoli.
Se tornerò a leggere qualcosa su quel periodo me ne ricorderò.
Ciao,
Michele
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Comunque anche lì, le nozione sono insufficienti e la voglia di conoscere meglio questa "grande" famiglia ti rimane..
Ciao
Federica