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L'apoteosi del Nulla... Purtroppo
Inizio col dire che “La solitudine dei numeri primi” non è un libro da dispezzare totalmente, o per lo meno non è così mediocre da poter essere paragonato alla stregua di Moccia o di ‘Melissa P.’, come ho potuto leggere in alcuni commenti. Questo romanzo non sarà l’apoteosi della letteratura, ma comunque è da prendere per il semplice fatto di poterlo analizzare una volta terminato.
Io l’ho iniziato e finito in una nottata di lettura no-stop, perchè da come si presentavano le prime pagine la storia mi aveva davvero catturata, ed ero presa dalla smania di sapere come l’autore avesse evoluto l’idea di base.
Partiamo proprio da questa, l’idea di base: originale e accattivante. Due ragazzi, anzi bambini, segnati entrambi da esperienze dolorose e troppo gravi da poter essere sostenute per la loro giovane età. In un qualunque giorno la loro vita subirà una svolta radicale, ed è proprio questo a incuriosirti e a spingerti a leggerlo, oltre al titolo, devo ammettere, ben congegnato per attrarre il lettore.
L’idea di base quindi l’ho trovata davvero buona, ma quando nel romanzo ritroviamo i due protagonisti cresciuti, lì inizia quel ‘non so che’ che ti fa storcere il naso.
Io ammiro Paolo Giordano per aver pubblicato un libro a soli 25 anni, non è da tutti, ma allo stesso tempo ammetto che poteva fare di meglio; per me non ha saputo sviluppare a pieno la trama che aveva in mente, partorendo un romanzo discreto, quasi buono, ma di sicuro non eccellente e sublime come i media ci hanno voluto far credere bombardandoci con elogi superiori al reale merito.
Infatti il libro inizia bene e procede discretamente fino alla fine dell’adolescenza dei protagonisti. Poi abbiamo un gran salto temporale che, essendo franchi, non mi è piaciuto per niente. Ritroviamo Alice e Mattia alle prese con il loro futuro dopo essersi lasciati in un modo insulso, quasi da bambini di prima elementare. Sinceramente leggere della loro nuova vita non mi ha soddisfatta, perchè ho notato come loro siano sempre gli stessi, mossi neanche di una virgola; evoluti fisicamente ma non emotivamente e psicologicamente.
E assai deludente è la fine, il modo in cui lui torna da lei per lasciarsi di nuovo in una maniera banale e senza senso. Un finale aperto che secondo la mia opinione delude il lettore, come ha deluso me. Insomma, ti lascia l’amaro in bocca.
Per me Giordano ha voluto chiudere troppo presto baracca e burattini, lasciando il lettore confuso e con troppe domande in sospeso. Tipo: la ragazza che Alice incontra era davvero la sorella scomparsa di Mattia? Lei lo fa tornare appositamente per questo motivo, ma alla fine non gli dice nulla. ‘Perchè?’ Ci viene da chiederci. Non ha senso. Non dico che l’autore non sapesse più che pesci pigliare, ma forse ha avuto troppa fretta di concludere, non accorgendosi della maniera semplicistica con cui ha risolto le cose, dopo 300 pagine nient’altro che semplici.
Nelle ultime due pagine infatti sembra che i protagonisti maturino di colpo assumendo nuove consapevolezze. Quindi abbiamo un’Alice che decide di contare d’ora innanzi solo sulle proprie forze e un Mattia che ci lascia un po’ spaesati. Giordano infatti decide di lasciarlo in bilico, senza dirici se stagnerà nei suoi problemi o cercherà finalmente la felicità. Non si capisce dalla fine, quando lui trova il biglietto di Nadia nella tasca. Che farà insomma? La chiamerà per dare una svolta alla sua esistenza incompleta o perpetuerà a voler essere un solitario? Troverà la pace in se stesso oppure accetterà il tormento che lo divora dall’infanzia convivendoci?
Troppe domande, poche risposte.
Tralasciando la trama, vorrei analizzare più dettagliatamente i personaggi, partendo dai due protagonisti. Secondo me il più riuscito fra i due è Mattia. Mi piace e mi affascina la sua psicologia contorta, la sua mente somigliante ad un labirinto inespugnabile, ma allo stesso tempo trovo tutto ciò in alcuni tratti troppo calcato e caricato dall’autore, che sembra volerlo fare annegare in un mare nero di desolazione.
Aliceal contrario è un personaggio un po’ insipido, perchè racchiude in sè un’accozzaglia di stereotipi: l’anoressica, l’emarginata a scuola, l’invalida, la ragazza dal rapporto paterno conflittuale e dalla madre malata. Insomma: un vaso di pandora contenente tutti i mali della gioventù moltiplicati per 100.
Tralasciando ciò, possiamo però dire che l’accoppiamento dei due come protagonisti non è male, anche se poteva essere perfezionata, soprattutto dal punto di vista psicologico. Infatti non posso credere che quando li ritroviamo nel futuro siano tali e quali a prima. Non è immaginabile né realistico, soprattutto perchè le loro vite sono cambiate radicalmente, hanno imboccato strade diverse e si presuppone che ciò porti a nuove esperienze e nuove consapevolezze che però paiono inesistenti.
Trovo altrettanto incredibile che entrambi non riescano a trovare almeno un po’ di pace interiore, continuando ad imitare gli atteggiamenti giovanili, come l’autolesionismo e l’anoressia. Mattia è l’eterno infelice, insoddisfatto, che si rifugia in un mondo di numeri per non affrontare quello reale; Alice sembra la solita bambina che nasconde e butta il cibo, e non riesce ad apprezzare quello che ha intorno, come la bellezza del matrimonio, l’amore e un marito premuroso, tutto ciò c’è di più bello per una donna.
Come ho già fatto notare, solo nelle ultimissime pagine sembra che questi due personaggi subiscano una svolta. Alice impara a camminare da sola, senza contare su nessuno, nè su Mattia nè sul marito. C’è solo lei e una nuova e inspigabile forza che sembra nascere dal nulla più assoluto, dato che tre righe prima era immersa in un lago di disperazione in cui sembrava affogare.
Mattia d’altra parte comincia ad alzare la testa e guardarsi intorno, ma come ho già detto prima, dal finale aperto non si capisce cosa voglia realmente fare: se voglia accettare il suo essere e darsi pace una volta per tutte, se perpetuare nell’autolesionismo e continuare la solita vita, o cambiare e cercare stabilità e felicità.
Sinceramente, non lo so, ma preferisco immaginare che alla fine riesca a trovare in sè stesso un po’ di serenità.
Una delle poche cose che apprezzo dei protagonisti è la metafora che li associa a numeri primi, “vicini ma mai abbastanza per toccarsi davvero”. La trovo intensa e suggestiva, anche se sarebbe stato meglio se alla fine entrambi fossero riusciti a superare i loro ostacoli, per spezzare finalmente la lontananza che lega quei numeri gemelli e dare a loro stessi (e anche ai lettori) un po’ di speranza dopo 300 pagine di solitudine, incompletezza, tristezza e di disarmante e asfissiante negatività.
Passando agli altri personaggi, mi è piaciuta la figura dell’amico gay, forse un po’ scontata, ma il suo personaggio mi attraeva emotivamente. L’autore però, dopo averlo presentato come l’elemento chiave dell’adolescenza di mattia e viceversa, e averlo psico-analizzato minuziosamente, avrebbe dovuto dargli un po’ più di rilevanza nella parte che racconta del loro futuro. Invece dopo essersene scordato per un bel po’ di pagine, ci ha accontentato facendo su di lui una digressione sommaria e insipida, soltanto per farci sapere che fine abbia fatto, se sia vivo o morto.
Altri personaggi sono i genitori di Alice e Mattia. Tutti e quattro rappresentati come l’emblema dell’incomunicabilità tra genitori e figli; non ce n’è uno che si salva da questo disfacimento. Giusto forse il padre di Mattia, che cerca di colmare il vuoto che la moglie ha nella vita del figlio, instaurando con quest’ultimo una sorta di legame sfilacciato che comunque non riesce ad avvicinarli del tutto, perchè c’è sempre quella barriera invisibile e inspiegabile che li separa.
Personaggi di contorno sono i compagni di scuola, i soliti bulli prevaricatori che incarnano la malignità giovanile. C’è del vero in quello che Giordano scrive: purtroppo oggi a scuola esistono realmente coalizioni all’interno delle classi e i capi di queste, che ti includono e ti escludono a loro piacimento, facendoti passare le pene dell’inferno se non sei come vogliono loro. Ma in tutta franchezza trovo questo elemento di contorno pesante e non indispensabile. Ti opprime ancor di più in quelle pagine già intrinseche di negatività a non finire.
Infine, tirando le somme, direi che il romanzo non è scritto male, ma neanche in maniera così egregia. Normale, niente di che.
Il contenuto è discreto, perchè come ho già ribadito c’è una bella idea di partenza, che poteva essere sviluppata molto meglio, dal punto di vista dei personaggi e della trama in sè per sè in cui essi si muovono.
Concludendo, la piacevolezza della lettura, durante e alla fine, è scarsa, perchè il mio grado di soddisfazione al termine del romanzo era pari a quello che ha Mattia della sua vita, se posso usare un paragone strettamente collegato. Più che altro delusione per un finale aperto e imprecisato, frettoloso e non approfondito quanto avrebbe dovuto essere. Mi ha lasciato davvero l’amaro in bocca.
Se dovessi giudicarlo con i numeri da 1 a 10, gli darei 5, esattamente la metà, perchè “La solitudine dei numeri primi” mi ha lasciato in bilico tra l’odio e l’amore nei confronti di questo romanzo.
Comunque tutto ciò è un parere personale e non sconsiglio la lettura di questo libro, anzi; è un romanzo che nonostante le pecche da me citate, ti porta a valutare le situazioni e le persone, dato che all’interno vi ritroviamo molti luoghi comuni.
Se lo si vuol leggere è per curiosità, per vedere cosa ci sia scritto e poterlo infine giudicare esprimendo un’opinione sincera.