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Miele amaro
Quasi una poesia in prosa, a tratti oscura e per lettori “forti”, carica com'è di metafore, riferimenti dotti e termini ricercati su cui persino lo Zingarelli a volte tace.
Respingente anche l'odore di morte che arriva da ogni pagina mentre scorre sotto gli occhi del lettore una galleria di spettri, morti che parlano e camminano.
E' una sorta di viaggio nell'anticamera dell'Ade, con l'io narrante che si affaccia sull'orlo del precipizio estremo traendone prima l'orgoglio disperato del condannato, poi l'esultanza mista a rimorso del graziato.
Crogiolarsi nell'idea della prossima fine ha il vantaggio di farlo sentire sublime protagonista dei pochi giorni che all'inizio crede gli restino da vivere, ruolo più comodo di quello di semplice comparsa con cui dovrà invece fare i conti ritrovandosi in mano, inaspettatamente, un numero presumibilmente cospicuo di anni.
La Rocca, sanatorio di Palermo popolato in gran parte da reduci di guerra, diventa per lui fonte di “miele amaro”, fetido e soave, luogo battuto da un sole impietoso nel corso della sua malattia e da una pioggia purificatrice al momento della guarigione, quando gli elementi della natura tornano ad essere forieri di vita:
“... e fu odore di piccola pioggia sull'erba, odore di nebbia, fioca aria di temporale lontano”.
L'amore, se così vogliamo definirlo, è una sorta di farmaco che agisce su sentimenti e sensi e aiuta ad aggrapparsi alla vita, con un'immagine femminile che in questo contesto mortifero non può che essere rappresentata da Marta, donna dal torbido passato e senza futuro:
“... trucioli erano, i suoi discorsi, trucioli d'oro finto... sotto il quale si intravedeva – male ma s'intravedeva – l'implacabile osso della morte”.
Pietà per i vinti, certo, ma anche dubbio se sia stato dopotutto premio o pena continuare a vivere
lasciandosi alle spalle una “giovinezza cariata”:
“Oh sì, furono giorni infelici, i più felici della mia vita”.
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