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La banalità è solo apparente
Questo narratore, di cui ho già letto gli splendidi romanzi Paese d’ombre e Il disertore non finisce di stupirmi, tanto che continuo a chiedermi perché sia caduto nell’oblio, domanda di cui non accetto la più che logica risposta che questa è la fine di chi sa parlare, senza mere astrazioni, dell’uomo e della sua esistenza. Quest’opera è apparentemente assai semplice, anche se presenta come al solito più piani di lettura. Infatti ci sono quelli della terra dell’autore, quella Sardegna arcaica a cui Dessì è senz’altro indubbiamente legato, ma c’è anche quello della terra intesa in senso puramente materiale, cioè di quel mondo rurale immobile per tanti secoli e che poi nel volgere di pochi anni, dopo la seconda guerra mondiale, è sparito, fagocitato da una mentalità di profitto che ha trasformato il contadino in agricoltore e poi in industriale.
In tal modo la specificità dell’ambiente isolano, chiuso in se stesso, arroccato su una difensiva da ogni novità, finisce con l’andare ben oltre il ristretto spazio a cui lo confina anche la mentalità della civiltà contadina per estendersi a tutti i rurali di questo mondo, almeno quali erano fino a non molto tempo fa. Ma se questa è la cornice di un quadro dipinto magistralmente, al centro dell’attenzione di Dessì c’è l’uomo, questa fragile creatura che, salvo rari casi, non riesce a emergere dall’anonimato della moltitudine, E in effetti la vita di Michele Boschino, questo contadino sardo il cui possesso di un paio di buoi e di un pezzo di terra costituisce la massima aspirazione, è di una banalità sorprendente, sembra una delle tante esistenze che non meritano memoria. E invece l’abilità sta nel fatto che tanti eventi che ci sono comuni assumano caratteristiche di particolarità, come nel caso della veglia del padre morente o del matrimonio, e ciò perchè il sapiente gioco di luci e ombre li fa assurgere a qualche cosa di straordinario e di irripetibile. Non solo questo però, perché dal punto di vista strutturale Dessì ha diviso il romanzo in due parti: nella prima si narra in terza persona degli anni forse migliori di Michele Boschino, a differenza della seconda, in cui lo troviamo solo, in miseria, esacerbato da quelle prepotenze dei parenti che avevamo inciso sulla vita di suo padre; tale condizione ci viene descritta in prima persona da Filippo, un giovane che nel percorrere il suo presente si trova sulla strada il nostro protagonista, in una ideale congiunzione fra il passato e tempi assai successivi, quasi a voler dimostrare che nella lotta per l’esistenza non vi è scorrere di lancette. Sono di rango sociale diverso, uno vecchio e l’altro giovane, ma nella vicenda sono indissolubilmente uniti da un destino, a loro indifferente, in un mondo campagnolo talmente immobile da sembrare senza tempo.
Non ci troviamo di fronte a due eroi, ma a due comuni mortali, anche se Michele riluce più di Filippo perché conosciamo molto della sua vita, fatta di lavoro e di umiltà; niente di particolare si potrebbe dire, se non che la banalità del vivere è come un grido lacerante, se pur muto, della condizione di passività a cui ogni uomo è assoggettato.
Non è facile trovare un autore che riesca a rendere così bene un’esistenza apparentemente anonima, a darle smalto, a ricordarci che se la vita di ognuno di noi può apparire del tutto simile, pur tuttavia é sempre irripetibile.
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questo romanzo non l'ho ancora letto ma vedo che mantiene alta la qualità come i precedenti da te citati. Intanto, a breve rileggerò il mio caro Paese d'ombre...
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Interessante recensione. Anch'io , come tanti, non conosco l'autore. Ma, grazie alle belle recensioni dei suoi libri pubblicate su questo sito, sono portato a riconsiderarlo come grande scrittore a cui eventualmente attingere per future letture.