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La morte e le donne
Apprezzo la ricerca seria e dignitosa di Michela Murgia intorno all’umano spirituale e religioso. L’accabadora è una figura ancora una volta femminile, dalla natura selvatica, che accompagna, che strappa il futuro dal grembo della vita, aiutando a morire. La sua presenza è riconosciuta come autorità. Attraverso le sue azioni, il destino di vita e di morte si manifesta come cura.
L’accabadora si muove sospesa fra la pietas dinanzi al dolore di una vita che fa male e la complicità scellerata con la parte onnipotente di ogni persona.
“In quella prima e amara scuola di fatto, la figlia di Taniei Urrai apprese la legge non scritta per cui sono maledette solo la morte e la nascita consumate in solitudine… A quindici anni Bonaria era già in grado di capire certe cose, farle o vederle fare è la stessa colpa, e mai da allora le era venuto il dubbio di non essere capace di distinguere fra la pietà e il delitto.” p.93
Di chi siamo fill ‘e anima? Attraverso codici e rituali che la comunità richiede per difendersi, l’accabadora, nera e dolente, è vicina e ascolta. Coniuga il tr?d?re come trasmissione, affidamento, resa e narrazione. E, quindi, infine, tradisce, senza salvare davvero nessuno. Non salva nessuno, l’accabadora, perché evita l’attraversamento.
Leggiamo di terre sarde maledette, di voci imprigionate, di anime impazzite che lottano, di persone che si vedono ma non si distinguono. Non c’è una ragione perché la morte sia considerata una soluzione. “Gli studiati” perdono nel confronto con l’accabadora che si rivela madre adottiva intuitiva, cinica e normativa.
“Non metterti a dare nome alle cose che non conosci, Maria Listru. Farai tante scelte nella vita che non ti piacerà fare, e le farai anche tu perché vanno fatte, come tutti.” p.116
L’accabadora esprime la scelta che manifesta la peggiore hybris, la sfida contro gli dei incomprensibili e, insieme, si rivela come servigio di accompagnamento oltre il dolore, opera non retribuita verso l’altrui paura.
Per chi resta, non esiste la morte dolce. Con l’amore, la morte rimane, silenziosa, lentamente, a vegliare sui desideri di vita, a insegnare che non esiste libertà di vivere o di morire, a mostrare le libertà di stare al mondo per quello che è e per quello che siamo. Pazientemente.
“Come gli occhi della civetta, ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte, dove la loro funzione è la stessa della luna, necessaria a smuovere maree di senso in qualche invisibile altrove dell’anima.” p.92
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Commenti
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Quindi io NON ci vedo nessun richiamo all'attualità, ma solo la volontà, della scrittrice, di farci conoscere una figura - finora poco conosciuta in "Continente" della tradizione sarda. Sulla "qualità letteraria scadentissima": dissento fortemente, secondo me è proprio il contrario; ma de gustibus non disputandum est
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Hai scritto un bel commento.
Io sarei stao più severo con la valutazione in stellette. Questo libro mi è parso un racconto forzatamente allungato con aggiunte di qualità letteraria scadentissima, come la parte ambientata a Torino. Inoltre mi è sembrato scritto sull'onda di certo dibttito d'oggi. Penso che ciò sia spesso una trappola micidiale.