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L'estate infinita
 
L'estate infinita 2015-10-19 07:38:54 Natalizia Dagostino
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
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4.0
Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    19 Ottobre, 2015
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Artigiano, imprenditore, industriale

Mi convince sicuramente come scrittore Edoardo Nesi, nel suo ultimo romanzo, pagine dell’avventura umana, sociale e lavorativa di tre famiglie, negli anni ’70-’80, della “povera gente italiana appena diventata benestante” (p.441).

E’ una storia molto bella, fra cantieri e camere da letto, fra onnipotenze e tradimenti, fra e il progetto industriale e le confidenze fra persone complici. La storia canta, convinta, la fortuna di avere vent’anni negli anni ‘80, nell’Italia migliore di sempre, nella regione italiana con le montagne della catena montuosa più piccola del mondo.

Ivo Barrocciai, ambizioso, giovane e sognatore, decide il salto dal piccolo artigianato tessile all’industria, assumendo il sogno di suo padre. Ivo vuole mettere su una fabbrica imponente, con tanto di piscina olimpica sul tetto e decide di farsi aiutare da Vezzosi, imprenditore edile, e da Citarella, capocantiere irpino.

“A Milano – e solo a Milano – Ivo sentiva rinvigorire dentro di sé quell’idea selvaggia che gli comandava di abbandonare ogni prudenza e ascoltare la voce del coraggio; di concedersi di provare a essere avventato e furbo … Da nessun’altra parte sentiva così forte il rombare di quella energia immane e invisibile che creava benessere e occupazione dal nulla e agiva attraverso il lavoro onesto e durissimo di tanti uomini e tante donne che ogni giorno si convincevano come lui che era arrivato il momento di intraprendere… Perché il sogno di Milano era ingenuo e grandioso e scintillante, e raccontava a tutti che era possibile cambiare la propria vita e il proprio destino se si aveva il coraggio di volerlo davvero, e nulla contava da quale gradino della scala si partisse … Di tutto c’era bisogno, e per tutti c’era spazio, nel 1975, a Milano, in Italia.”p.111-112

Racconta bene Edoardo Nesi le persone come capitale e risorsa e non come spesa e carico, il lavoro come dignità e identità e ricerca. Basta lavorare per trovare casa, per sposarsi, per andare in vacanza, per crescere i figli e farli studiare. Godibili le descrizioni oneste, mai noiose e quel futuro immaginato e costruito mi appassiona e mi interroga su quel che non ha funzionato e non ho capito in quegli anni di fatica entusiasta e di desideri numerosi e potenti.

Oggi so e i miei figli sanno come è andato a finire, quel futuro che non finiva mai, degno e sensibile, furibondo e delicato. E, dopo aver letto, con tristezza infinita ripongo il volume nello scaffale, io che negli anni ottanta avevo vent’anni e vivevo a Roma e a Milano e avevo il mondo nel cuore e nei piedi.
Sono arrivata nei guai del nuovo millennio da quell’Italia che adesso mi pare ingenua, “tutta da costruire – non da restaurare, non da ripristinare -, da costruire, e il mondo sapeva di vernice, di benzina, di plastica e di gomma.” (p.147)

Continuo ad occuparmi di tirar su persone nelle aziende e non è scontato che gli Ivo, i Cesare, i Pasquale, oggi che – poveretti fragili e arroganti - hanno trent’anni, siano bravi artigiani e che diventino imprenditori consapevoli, prima, e industriali visionari, poi. Rivedo sgonfi i bambolotti della mucca carolina, di susanna-tutta-panna e di ercolino-sempre-in-piedi!

Osservo la convinzione e la pratica del possesso, le battute stupide e taglienti sui dipendenti, la posa maschile del comando, tutta la fenomenologia del potere acquisito, ereditato, del potere ignorante che sta addosso come un abito stretto e che, di conseguenza, accompagna dritto alla nevrosi.
Riparto da questo romanzo, dalla rabbia, dallo sdegno, dallo sconforto, dalla tenerezza, perché esiste una educazione possibile per il lavoro, per gli imprenditori/trici, per la comunità.

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