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L'amica geniale
 
L'amica geniale 2015-09-06 21:12:07 Bruno Izzo
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    06 Settembre, 2015
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Una donna per amico

Non esiste nulla al mondo che, come e più di un buon romanzo, possa descriverci al meglio e con interesse crescente, insistente curiosità e nitida efficacia, l’intera esistenza di una persona.
Un libro può raccontare in modo laconico ma lapidario un grande intervallo di tempo, un numero incredibile di eventi, di fatti, di cambiamenti, accompagnati dai pensieri, dalle riflessioni, dai dialoghi, dagli umori dei protagonisti, che scandiscono così tutte le loro stagioni di vita, l’infanzia, la crescita, la maturità e l’epilogo dell’umana esistenza.
Se poi tale descrizione avviene con cura estrema, e con tale incanto da ammaliare il lettore, intrattenendolo, interessandolo, emozionandolo, se poi gli si descrive non una sola esistenza, ma due, ecco che di libri ne servono appunto due; e se il romanzo, come in questo caso, scruta, indaga e descrive non solo la vita ma tutto l’animo, lo spirito, l’intenzione, l’indole delle protagoniste, allora i due libri si elevano alla potenza di due, diventano quattro.
Raffaella Cerullo, detta Lina o Lila, figlia di un ciabattino, o meglio di uno scarparo, come si dice in napoletano, ed Elena Greco, detta Lena o Lenù, figlia di un usciere del comune, sono le protagoniste uniche e assolute non del solo romanzo, ma dell’intera quadrilogia con cui Elena Ferrante racconta una storia che si snoda in oltre mezzo secolo di vita, dai primissimi anni ’50 fino ai giorni odierni.
Una storia che si svolge a Napoli, in uno dei quartieri più poveri e degradati della città, ma che avrebbe potuto benissimo svolgersi, con pari efficacia, nelle desolate borgate romane, le stesse dove sono ambientati “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta” di Pier Paolo Pasolini, oppure nelle opprimenti case di ringhiera dell’hinterland milanese e nei tuguri sui navigli descritte da Giorgio Scerbanenco, oppure ancora nel popolare quartiere fiorentino di San Frediano di cui ci parla Vasco Pratolini; e non a caso citiamo luoghi e autori, perché a tali scrittori è senz’altro accostabile il nome e il valore letterario di Elena Ferrante.
Un poker di libri, ciascuno dei quali interessa le quattro stagioni di vita delle protagoniste: “L’amica geniale” contempla l’infanzia fino alla prima giovinezza, “Storia del nuovo cognome” si svolge durante l’adolescenza, “Storia di chi fugge e chi resta” interessa la maturità, l’ultima stagione di vita è richiamata in “Storia della bambina perduta”, quest’ultimo titolo finalista all’ultimo premio Strega.
Un poker di libri necessario per l’esaustività dell’opera, e per l’ampio periodo in cui si snoda la storia, ma non altro; Elena Ferrante, nonostante le apparenze o il numero di pagine vergate, è una scrittrice di rara sintesi ed efficacia, scevra da ridondanze e ripetizioni, una scrittrice essenziale ed esauriente insieme, già questo un pregio unico e raro nel panorama letterario.
Questa storia, declamata da una delle due protagoniste, Lenù, l’io narrante che svolge con certosina dedizione il suo ruolo di scriba, di chi trascrive diligentemente gli eventi e gli accadimenti, commentandoli e analizzandoli, si dilunga dunque in questi quattro libri distinti, ciascuno dei quali gode comunque di una sua interezza, ognuno di essi è fine a se stesso.
L’esigenza di diluire il racconto in più volumi, dettata certamente dalla necessità editoriale di contenerne le pagine, finisce per rilevarsi un gradevole indice di gradimento dell’opera, ci si trova, infatti, davanti a un raro esempio di un raccontare che si vorrebbe non avesse mai fine.
“L’amica geniale” tira la volata agli altri tre che seguono; esso è forse il più bello, il più incisivo, magari i romanzi successivi vivono soprattutto di luce riflessa dal primo libro della serie, ma l’intera storia merita, si fa leggere volentieri, è una buona storia ben raccontata, è una perla della contemporanea letteratura italiana.
Il lettore s’incanta, resta avvinto, affascinato dalla storia, come sempre dovrebbe succedere alla lettura di un buon libro; ma la Ferrante riesce in un di più, crea quell’atmosfera per cui, girata l’ultima pagina, ci si spiace, ci si resta male, si vorrebbe saperne di più, leggere di più, continuare a stare vicino alle protagoniste, seguendone le vicende direi in religioso silenzio, compartecipazione e trepidazione insieme.
Si badi, non si desidera sapere come va a finire, cosa succederà, non si tratta del fenomeno della fidelizzazione del lettore nei confronti dei personaggi come accade per esempio nelle fiction seriali, questa non è una storia a puntate, ma è la Storia, è il Romanzo, è il Summa dell’arte di scrivere.
Si desidera vivere la storia narrata, lasciarsi cullare dal ritmo ipnotico dello svolgersi dei fatti, centellinare le pagine quasi fosse un nettare, un’ambrosia.
Perciò, “L’amica geniale”, se non un capolavoro, è un’opera straordinaria, è pari se non di più ai grandi classici della letteratura, è una di quelle storie struggenti e delicate insieme, tenere e violente, amare e suadenti, in cui ciascuno riconosce se stesso, ritrova in qualche modo parte di sé, delle sue contraddizioni, i dubbi, le ipocrisie del vivere comune, fa pensare a cosa sarebbe potuta essere la propria esistenza se si fossero compiute scelte differenti, se ai bivi importanti della propria vita si fossero intraprese strade diverse, incontrate altre persone, se si fosse viaggiato altrimenti, ci si fosse allontanati o riuniti a posti e persone, è lo scorrere della vita di ciascuno, con il suo bagaglio di eventi purtroppo più spesso tristi che lieti, che è il vero fulcro ammaliante del romanzo, la sua forza è in questo. E non può perciò annoiare, non ci si stanca mai di sé.
Elena Ferrante non scrive una storia romanzata, fa romanzo della vita, perciò ciascuno è indotto, attraverso il racconto dell’esistenza più spesso misera ma sempre accesa di speranza di Lila e Lenù, a riconsiderare le proprie miserie e i propri agi, le proprie scelte e i propri pensieri, a rievocare i sogni realizzatisi o no, a fare racconto di sé, raccontarsi e redimersi, se si vuole, o semplicemente riconsiderarsi.
Facendo i conti con se stessi, con quello che, in effetti, siamo e quello che invece mostriamo, considerando con interezza il nostro genio interiore e non confondendoci con la nostra doppiezza.
La vita si svolge sempre su un binario doppio, bianco e nero, bene e male, sì e no, la vita ha sempre una valenza binaria; per questo, le ragazze protagoniste sono due, Lila e Lenù, ciascuna di lei ha, come tutti noi, il desiderio, la voglia, la volontà di crescere e cambiare, affrancarsi dal degrado morale e materiale in cui per caso o per volere degli dei si sono trovate a vivere, con metodi e scelte differenti, adeguati al proprio io, o semplicemente ritenute le più efficaci e opportune da seguire.
Lila e Lena sono diverse, e complementari; in realtà, non sono come due sorelle, o come due amiche intime e intensamente vicine e compartecipi, tutt’altro, tra loro c’è anche astio, livore, disagio, timori, litigi, rivalità, ci sono slanci di affetto e periodi di distacco, non per forza vanno sempre d’amore e d’accordo, spesso sono separate per tempi lunghi dalle distanze e dai casi squisitamente personali, nemmeno si dicono e si confidano completamente tutto di sé, molte sono le zone d’ombra che ciascuna cela volutamente all’altra.
Il romanzo non è, infatti, come molti credono, un’elegia dell’amicizia, è un di più: Lena e Lila sono due metà dello stesso essere, le famose metà di un’unica mela, ma con qualche distinguo.
Non sono propriamente complementari, sono intimamente parecchio contrapposte:

“Forse devo cancellare Lila da me come un disegno sulla lavagna, pensai, e fu, credo, la prima volta. Mi sentivo fragile, esposta a tutto, non potevo passare il mio tempo a inseguirla o a scoprire che lei mi inseguiva, e nell’un caso e nell’altro sentirmi da meno.”

Sono un’unica entità, diversa secondo le opportunità che la vita presenta a ciascuna di loro pur essendo tanto intimamente contigue, opportunità che possono venir colte o meno per cause indipendenti da loro stesse; possono essere perciò ambedue brillantissime studentesse ma solo una continuerà gli studi, l’altra interromperà gli studi ma si industrierà in una creativa attività imprenditoriale, a ciascuna di loro la vita riserva differenti seconde scelte, diverse opportunità, alterna fortuna, fortuiti e ridondanti incontri, amori comuni e sentimenti contrastanti.
Tuttavia da qualcosa sono intimamente unite, che le rende un tutt’uno geniale, le due amiche sono inestricabilmente legate dallo stesso spasmodico desiderio di crescere, sono congiunte inestricabilmente dalla voglia di non soccombere al “rione”, cioè a ciò che sentono “molesto” per le loro esistenze e per il loro futuro di giovani donne, desiderano con energia vivere libere e sapienti i loro personali “giorni dell’abbandono”, sono provviste di questa indole, questa volontà, questo “genio”, per cui nessuna di loro due desidera prevaricare ed eccellere sull’altra considerata pari grado, ma ciascuna di esse confida spontaneamente nell’altra e la considera di più, si crea un’alleanza concorde, si conviene saldamente lo stesso pensiero d’evasione dal rione e dai suoi abitanti, dalla miseria e dalle brutture, ognuno di loro pensa dell’altra:

“Tu sei la mia amica geniale, devi diventare la più brava di tutti, maschi e femmine.”

Chi, allora, tra Elena e Lila, Lena e Raffaella. Lenù e Lina, è per davvero l’amica geniale?
Lo è ciascuna delle due, ciascuna a suo modo, ciascuna vede l’altra come il proprio alter ego, e quindi per forza di cose ognuna di esse, diversissima e pure tanto uguale alla sua amica coetanea, è per l’altra il genio, o meglio, colei che ha avuto il “genio”, la voglia, l’ambizione, il desiderio forte, la determinazione per essere altro da ciò che è, tenuto conto da dove viene, e da quello che avrebbe dovuto essere.
Il racconto della loro epopea inizia quando, ormai alla soglia dei sessant’anni e più, Lila, quelle della due più inquieta, irrequieta, ribelle, scompare dalla sua abitazione in Napoli; l’altra, Lena, tranquilla e quieta intellettuale sui generis, pacata, razionale e sentimentale, affermata scrittrice in Torino, decide allora di scrivere la storia delle loro due vite, fittamente intrecciata, attingendo a piene mani dal corposo album dei ricordi di due esistenze tanto legate quanto diametralmente opposte.
Il libro inizia quindi da subito nel delineare la trama del romanzo: il racconto della vita per tanti versi condivisa dalla nascita di due donne, ognuna provvista di un proprio carattere, considerato speciale, geniale, dall’altra.
Ognuna avrebbe voluto essere l’altra: in realtà, si tratta di due caratteri ambedue speciali, unici, singolari, geniali appunto.
Due caratteri altrettanto geniali, quelli di Lila ed Elena, tanto diversi da desiderarsi a vicenda quindi, e da subito, fin da piccolissime, anche se lo capiranno solo più avanti negli anni.
Da subito, dalle prime pagine, Elena Ferrante traccia con chiarezza la sua storia: il suo intento è scrutare nell’animo delle sue protagoniste con pari intensità, e con uguale dedizione descrivere la loro insita “genialità”, certa di assicurarsi in questo modo la simpatia del lettore, nessuno riesce a mostrarsi indifferente alla genialità delle sue protagoniste.
Inizia quindi dalla primissima infanzia prescolare, in cui le due bimbe vicine di casa, loro due tra i tanti bambini del rione in cui abitano, istintivamente si avvicinano, si cercano, si trovano, affinano la loro conoscenza nelle lunghe ore di giochi in cortile con le loro rispettive bambole, Nu e Tina; e con i giochi si scambiano le confidenze, condividono le paure, provano a sfidarsi, si studiano, si cimentano nell’identificarsi l’una con l’altra, il tutto velato dall’incanto che fa dei colloqui dell’infanzia scoperta e fiaba:

«È bello» mormorai, «parlare con gli altri».
«Sì, ma solo se quando parli c’è uno che risponde».

Prosegue a scuola, dove Lina, di carattere introverso, chiuso, aspro, rivela un’istintiva innata genialità espressa nella precoce capacità di lettura e scrittura, mentre Lena, più pacata, riflessiva e remissiva, affina invece le proprie capacità di sacrificio e disciplinata applicazione allo studio.
Il loro rapporto si rifinisce nella condivisione del comune obiettivo di affrancarsi dall’ambiente misero e miserevole in cui vivono, affidandosi allo studio, alla cultura, ai libri, alla scrittura, tutti elementi considerate le uniche autentiche armi a disposizione per sottrarsi dalla cappa di povertà, bisogno ed emarginazione che incombe sul rione dove vivono miseramente, e per converso sulle loro famiglie, sui loro amici, sulle loro esistenze.
La cultura per loro è l’inverso della miseria, la conoscenza, il sapere, l’etica insita nelle letture significa amore, e senza amore l’esistenza non merita di essere vissuta, non ha valore.

“Se non c’è amore, non solo inaridisce la vita delle persone, ma anche quella delle città.”

Tant’è che, venute in possesso di una misera somma con il sacrificio delle loro bambole, la investono segretamente nell’acquisto di un libro, da leggere insieme di nascosto, condividendo quasi come con un senso di segreta colpevolezza il piacere di quella lettura, evento particolare nel loro ambiente rozzo, culturalmente degradato e arretrato non tanto in sé e per sé, ma perché ancora disperatamente alla ricerca della possibilità per tutti i loro abitanti del soddisfacimento dei puri bisogni elementari della vita.
Il libro acquistato con tanto amore e tanti batticuori sarà, manco a farlo apposta, “”Piccole donne” , il piccolo capolavoro di Luisa May Alcott, e con altrettanto amore le due amiche lo leggeranno insieme, ne condivideranno con cura il possesso, lo nasconderanno religiosamente a tutti, ne faranno simbolo e cimelio della loro unione, se ne rileggeranno a vicenda più volte i brani più significativi, fino a consumarne letteralmente le pagine, poiché i loro poveri mezzi non gli permetteranno ulteriori acquisti.
Da questa lettura nascerà il loro primo, intimo segreto di scrivere un libro, di diventare scrittrici e così liberarsi una volta per sempre dal degrado sociale e culturale malsano da cui ciascuna di loro è avvinta suo malgrado, e di cui ognuna di loro desidera liberarsi.
Sarà Lila, forse la più precoce delle due amichette, a compiere un primo passo in questa direzione scrivendo appena bambinetta delle classi elementari “La fata blu”, provvedendo di sua mano con cura e commovente amorevole solerzia a confezionarlo con un’elementare ma elegante veste “editoriale”.
Allora, dalle prime pagine del romanzo sembra essere Lila la vera”amica geniale”; invece, per motivi economici, la piccola deve interrompere gli studi dopo la licenza elementare, la famiglia è troppo bisognosa perché si possa accollare l’onere della scuola, e nonostante gli sforzi e le proteste dell’insegnante, che ben conosce l’intelligenza della piccola, la bimba prodigio è costretta suo malgrado ad abbandonare gli studi.
Sarà Elena, assai più timida, paurosa, remissiva, obbediente e gentile, la prototipa della brava bambina desiderosa solo di compiacere agli adulti, che pur completamente senza fiducia nelle proprie capacità, stimolata solo dalla volontà di non assomigliare crescendo alla misera figura zoppicante e scarmigliata della madre, e supportata da Lila, ad avere la possibilità di continuare gli studi oltre la licenza elementare, un lusso per quegli anni, una cosa incredibile per una ragazza in quel rione.
Ecco che i ruoli si ribaltano, è Lena ora “l’amica geniale”, ma le parti in questa storia non hanno motivo di essere, le due ragazze sono due semisfere, nel corso del tempo le vesti e le mansioni spesso se non sempre si rovesciano, ora l’una ora l’altra giganteggerà nei casi della vita.
In questo primo libro, Lila anche se costretta ad abbandonare gli studi, resterà comunque determinata ad andare oltre lo stradone, oltre il tunnel che limita l’angusto orizzonte del rione.
Al principio si limiterà ad aiutare il padre e il fratello nella bottega di scarpari, e la madre in casa nelle faccende casalinghe, mentre Lenù cercherà, invece, di cambiare il proprio destino attraverso lo studio. Poi, Lila s’industrierà abilmente nella confezione di scarpe creative e originali.
La piccola donna, infatti, non demorde, Lila ha un carattere ribelle, tosto, intraprendente, coraggioso; sa muoversi perfettamente a suo agio, benché piccola e minuta, tra i violenti del quartiere, riesce perciò ad ottenere incredibilmente carisma e rispetto, primeggerà giovanissima in quel rione intimamente intriso di miseria e di contrasti, pieno dell’astio e del livore dei poveri l’un contro l’altro, e delle nefandezze e dell’arroganza degli immancabili potenti e malavitosi del luogo.
Compirà la sua scelta, allora, Lila, credendo che sia l’opportunità migliore che la vita possa offrirle al momento, a soli 15 anni compirà un passo fondamentale, convinta che sia quello giusto indicatole dagli dei per ottenere la rivalsa sociale ed economica tanto ambiti, ma che come vedremo nei romanzi successivi, si rivelerà una scelta effimera, errata e ingannevole, si dissolverà come una bolla di sapone, causa di grandi dolori, strazi e sofferenze future.
Di tutto questo, sarà testimone Lenù, che intanto prosegue i suoi studi, portati avanti con sacrificio e ferrea disciplina personale, con amore e determinazione, in grandi ristrettezze economiche e morali, tra miseria, umiliazioni, libri usati e ore rubate al sonno e agli svaghi.
E avrà genio di raccontarlo minutamente.
“L’amica geniale” è un libro che paradossalmente riconduce a due i personaggi principali, ma presenta invece contemporaneamente una pletora di coprotagonisti, ognuno dei quali con un proprio ruolo e una propria indispensabile caratterizzazione; da Rino Cerullo, fratello di Lila, a Stefano Carracci, figlio dell’ex strozzino e borsanerista del rione; da Pasquale Peluso, muratore e militante comunista, a Enzo Scanno, fruttivendolo silenzioso e intraprendente; dall’ambiguo Donato Sarratore, poeta e giornalista, al figlio Nino, brillante studente, da Melina la pazza ad Antonio Cappuccio, meccanico, fino ai fratelli Michele e Marcello Solara, i piccoli boss camorristi del rione.
Ognuno dei coprotagonisti è come il tassello di un puzzle che configura il “rione” in cui si svolge la storia, il rione è la causa e l’origine della storia stessa, è l’essenza unica del romanzo.
Il rione è il vero protagonista del libro, è il luogo amato perché natio e che ti ammalia, ti costringe nelle sue spire, nei suoi rituali, i litigi, i rancori, gli amici, le bravate, le feste, gli spari del capodanno, cosicché non riesci a staccartene, a rifuggirne; è un luogo, un altrove, cattivo e affascinante insieme, ma è il tuo luogo, che tu lo voglia o no, è tuo, è un luogo dove:

“Vivevamo in un mondo in cui bambini e adulti si ferivano spesso, dalle ferite usciva il sangue, veniva la suppurazione e a volte morivano. Una delle figlie della signora Assunta, la fruttivendola, si era ferita con un chiodo ed era morta di tetano. Il figlio più piccolo della signora Spagnuolo era morto di crup alla gola. Un mio cugino, all’età di vent’anni, una mattina andò a spalare macerie e la sera era morto schiacciato, col sangue che gli usciva dalle orecchie e dalla bocca. Il padre di mia madre era rimasto ucciso perché stava costruendo un palazzo ed era caduto giù. Il padre del signor Peluso non aveva un braccio, gliel’aveva tagliato il tornio a tradimento. La sorella di Giuseppina, la moglie del signor Peluso, era morta di tubercolosi a ventidue anni. Il figlio grande di don Achille – non l’avevo mai visto, eppure mi pareva eppure mi pareva di ricordarmelo – era andato in guerra ed era morto due volte, prima annegato nell’oceano Pacifico, poi mangiato dai pescecani.
Tutta la famiglia Melchiorre era morta abbracciata, urlando di paura, sotto un bombardamento. La vecchia signorina Clorinda era morta respirando il gas invece dell’aria. Giannino, che stava in quarta quando noi eravamo in prima, un giorno era morto perché aveva trovato una bomba e l’aveva toccata. Luigina, con cui avevamo giocato in cortile o forse no, era solo un nome, l’aveva uccisa il tifo petecchiale. Il nostro mondo era così, pieno di parole che ammazzavano: il crup, il tetano, il tifo petecchiale, il gas, la guerra, il tornio, le macerie, il lavoro, il bombardamento, la bomba, la tubercolosi, la suppurazione. Faccio risalire le tante paure che mi hanno accompagnata per tutta la vita a quei vocaboli e a quegli anni. Si poteva morire anche di cose che parevano normali. Si poteva morire, per esempio, se sudavi e poi bevevi l’acqua fredda del rubinetto senza esserti prima bagnata i polsi: succedeva che ti coprivi di puntini rossi, ti veniva la tosse e non potevi respirare più. Si poteva morire se mangiavi le ciliegie nere senza sputare il nocciolo. Si poteva morire se masticavi la gomma americana e per distrazione la ingoiavi. Si poteva morire soprattutto se prendevi una botta alla tempia. La tempia era un posto fragilissimo, ci stavamo tutte molto attente. Bastava una sassata, e le sassate erano la norma.”

Da un posto così, da una vita così, chiunque desidererebbe evadere, scappare via.
Invece no: il romanzo non è solo questo, sarebbe semplicistico, le due amiche geniali non odiano il loro rione, capiscono che è incolpevole dei suoi stessi guasti.
Ciò che denigra il rione è altro, il suo limite, il suo degrado è l’ignoranza, e la protervia che ne deriva.
Perciò il rione è privo di cultura, e quindi necessariamente violento:

“Non ho nostalgia della nostra infanzia, è piena di violenza. Ci succedeva di tutto, in casa e fuori, ogni giorno, ma non ricordo di aver mai pensato che la vita che c’era capitata fosse particolarmente brutta. La vita era così e basta, crescevamo con l’obbligo di renderla difficile agli altri prima che gli altri la rendessero difficile a noi. Certo, a me sarebbero piaciuti i modi gentili che predicavano la maestra e il parroco, ma sentivo che quei modi non erano adatti al nostro rione, anche se eri femmina. Le donne combattevano tra loro più degli uomini, si prendevano per i capelli, si facevano male. Far male era una malattia.”

Il rione è malato, e la cultura è l’unica medicina valida; l’evolversi dell’esistenza deve senza indugio rivolgersi al meglio, al bene, all’amore.
In estrema sintesi, questa e solo questa è l’essenza de “ L’amica geniale” di Elena Ferrante.

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